sábado, 3 de julho de 2010

In occasione del conferimento della Medaglia d’argento per la Resistenza linguistica

Ogni qual volta sono stato invitato all’estero a parlare, in convegni accademici o per lezioni e conferenze, da quindici anni a questa parte – ora ne ho sessantaquattro – ho proposto di parlare in italiano, e non in inglese (il francese è ormai diventata una lingua di degustazione elitaria). Se mi si obbliga a parlare in inglese, rinuncio al viaggio.

La mia lingua è l’italiano, infatti, ed è quella che conosco meglio di tutte le altre. L’italiano è l’unica lingua nella quale posso veramente esprimermi al meglio: questa è la ragione necessitante della mia forma di resistenza.

E ancora: l’uso dell’inglese, inteso come lingua franca e come lingua di una ipotetica comunicazione “universale” tra gli utenti di tante lingue diverse, produce una mistificazione e una oppressione. Alla cui onnipotenza si può opporre solo una resistenza linguistica, non solo locale, ma da diffondere ovunque. Nel campo accademico, nel quale tale resistenza dovrebbe di più farsi valere, la battaglia è perduta. Negli ultimi tempi in Italia ogni anno aumentano i corsi di laurea i cui insegnamenti sono impartiti in inglese. E gli studenti di Lettere ormai pensano le parole italiane e straniere, anche quelle di lingue neolatine, attraverso i calchi dell’inglese.

Ritengo che sia ancora più grave la situazione in cui l’inglese faccia da lingua “comune” e salva-comunicazione tra due lingue “lontane”, ad esempio, tra italiano e arabo. La lingua inglese, in questo caso, rappresenta in senso pieno un “terzo incluso(si)” che serve a collegare lingue che, da un punto di vista coloniale, vengono ritenute lontane, non comunicanti e completamente “straniere” tra di loro. L’inglese si propone come la terza lingua che fa da collante e da salvatrice “universale”. In verità, essa è superflua e inaccettabile. Perché è inaccettabile? Perché è una lingua alla quale nessuno di noi appartiene, né io che parlo, né chi mi ascolta. In casi simili – come quelli che mi sono capitati recentemente a Casablanca e a Il Cairo – chiedo l’assistenza operativa di un traduttore tra le due nostre lingue, l’italiano e l’arabo, alle quali apparteniamo: io, lui o lei e il pubblico. Ci unisce il nostro stare insieme nelle nostre due lingue mediante un “interprete” che permette una comunicazione diretta e autentica, anche se mediata dalla traduzione. Che però è più intrinseca al rapporto tra le nostre due lingue rispetto alla mediazione della terza lingua. Nel caso della traduzione non viene invocata la potenza di uno “spirito santo terzo” sceso dall’alto a indicarci la verità per poterci intendere attraverso la sua lingua. Attraverso la traduzione nessuno tradisce le proprie lingue, nessuno ne invoca una superiore, ma tutti stiamo nelle migliori condizioni della comunicazione attraversata dall’unica mediazione interculturale necessaria, che è proprio e soltanto quella della traduzione. La traduzione è l’unica lingua universale che non sia una lingua, né naturale né artificiale. La traduzione è il rimedio assolutamente umano a ciò che deve essere successo a Babele.

Nota: alcuni miei libri e diversi miei scritti in italiano sono stati tradotti in varie lingue: il portoghese e il porto-brasiliano, lo spagnolo e l’ispano-cubano, il gallego, il francese, l’inglese e l’anglo-americano, l’ungherese, lo slovacco, il serbo, il rumeno, il macedone, l’arabo-egiziano, il mandarino-cinese. Questo piccolo tesoro di traduzioni – che va da una lingua nazionale-locale come il gallego a due lingue “mondiali” come l’inglese e il cinese – dovrebbero rendere soddisfatto del proprio lavoro ogni studioso di letteratura. In quanto il pensiero-lingua in italiano è stato tradotto in lingue diverse.

armando gnisci

25 aprile 2010