segunda-feira, 1 de novembro de 2010

quarta-feira, 27 de outubro de 2010

Intervista al Prof. Armando Gnisci

Pubblicato il: 20/10/2010
In: Il nostro Ateneo, Interviste, Università

Professor Gnisci, parliamo della lettera di commiato che ha esposto nella sua bacheca, anticipando l’addio dal mondo dell’università a decorrere dal 1 Novembre 2010 andando prematuramente in pensione. Può spiegarci meglio quali sono i motivi che l’hanno portata a rinunciare al mondo dell’università e della ricerca?

Io non sto rinunciando alla ricerca, allo studio e all’impegno civile. Mi sono solo dimesso dall’università perché ho dato troppo. Non ho fatto solo il mio dovere, bensì molto di più. Ho resistito per 40 anni in un luogo che è diventato sempre di più, a mio avviso, malato e inadeguato. Per 40 anni ho fatto resistenza anche al potere becero della baronia accademica universitaria, alla volgarità e al malanimo. Dagli anni ’80 in poi la nostra vita civile e universitaria sono man mano decadute. Non solo dal punto di vista degli scandali accademici; l’università ha risentito, così come tutta la società, dell’ “imbarbarimento”, come lo chiama Eugenio Scalfari, della nostra vita quotidiana e della cultura della nazione o meglio, della repubblica: la cosa di tutti. La repubblica svanisce in Italia. Invece di crescere. Negli ultimi 16 anni è diventato un luogo di dispotismo caotico, di “deculturazione“, di abbattimento dei valori culturali di questa nazione etc.

Mi sono opposto a tutto questo, anche al “berlusconismo“: un despota che ci governa che ha in mano la stampa, la comunicazione di massa e le case editrici, inquinando così la nostra vita culturale oltre che l’educazione della repubblica. Lui e il suo alleato, il signor (credo sia signor, ma è un signore?) Bossi, formano la doppia immagine dell’attuale inciviltà italiana e dei modi di essere incivili, incolti e ignoranti all’italiana. Essi governano gli italiani mediante “l’incoltura”, l’ignoranza, il “pressappochismo”, biascicando bestemmie e insulti con il linguaggio da “billioner” e da taverna celtica. Tutto questo non è solo maleducazione, è orrore. A tutto questo orrore ho resistito dentro l’università: andando a finire addirittura in tribunale e condannato per aver scamiciato un preside (per tre volte consecutive) della Facoltà di Lettere e Filosofia della Sapienza che governò la “repubblica delle lettere” con il motto “filosofia e pecorino”. Mi sono dedicato quasi totalmente all’insegnamento; dico “quasi” perché dall’’80 a oggi ho pubblicato 43 libri, facendo quindi un po’ ricerca. I miei scritti sono stati tradotti in 12 lingue: dall’arabo al cinese mandarino, all’inglese, spagnolo, portoghese, francese, serbo e macedone, galego ecc.

In 40 anni, ho dato molto agli studenti e al pensiero critico. Ora basta! Voglio liberarmi dalla stretta nella quale sono rimasto per tutti questi anni, lottando per il bene delle nuove generazioni. E torno nella “Casa del Mondo”, dedicandomi alla ricerca e all’insegnamento, ma non nelle università private italiane o in quelle americane; andrò a conversare portando quello che so nelle scuole elementari, nelle unità terapeutiche di bambini che soffrono di cecità o tumori. Vado a parlare con loro, raccontando favole tradotte da me da barzellette deliziose, non quelle sconce del premier, e da poesie di Wasława Szimborska, la poeta polacca premio Nobel.

Traduco in favole barzellette come questa:

“In una bella fattoria gli animali, tutti amici e d’accordo tra loro, stabiliscono di andare a fare un bel picnic in una bella radura di un bosco poco lontano. Si incamminano felici e contenti, forniti di scatolame. Arrivati alla radura s’accorgono che hanno dimenticato di portare l’apriscatole, necessario per pranzare. La tartaruga si offre di andare a patto che nessuno cominci a mangiare prima del suo ritorno. Essa parte ma dopo tre ore tutti cominciano a preoccuparsi. La papera propone di iniziare a mangiare, il cane vuole rispettare il patto mentre il gatto esorta tutti a cominciare il pasto e alla fine decidono di cominciare a mangiare qualcosa. Una vocina proveniente da dietro un albero a 500 metri da loro fa scattare l’attenzione dei commensali e riconoscono la tartaruga, secondo loro di ritorno. Dice: ”Ho sentito tutto, avete deciso di mangiare. Lo ripeto, o mi aspettate o manco ci vado!”.

La tartaruga dopo 3 ore era solo a 500 metri da lì, e stava ancora andando. È una barzelletta molto graziosa, l’ho trovata in un libro di filosofia, raccontata da un filosofo ad un altro filosofo: Jacques Derrida che la racconta a Maurizio Ferraris.

Questa barzelletta gentile, virtuosa e arguta può essere trasformata in una favola e poi anche in una messa in scena teatrale. Provo a tradurre da un genere all’altro questi testi e raccontarli ai bambini. Cercherò di fare cose come queste, che siano di sapienza e di gioia; di quello che gli antichi chiamavano gai savoir, gaia scienza, un sapere gaio. Un sapere che sia allo stesso tempo gioia e condivisione. Prima di morire voglio salvarmi, sanarmi e vivere contento.

Lei ha parlato di “malattia” dell’università: da quanto tempo è malata, di quale malattia si tratta e come può guarire, se può?

La malattia fondamentale sta nell’arretratezza culturale e morale della classe politica italiana; sono loro che fanno le leggi e governano, sono i responsabili in senso lato e preciso. Da 40 anni a questa parte l’università è stata continuamente riformata, sempre peggio e senza mai avere un piano razionale e giusto. Negli ultimi 20 anni questo processo è diventato in maniera vorticosa “depravante” e degradante. L’università e la ricerca sono sempre più tagliabili, dimenticabili e trascurabili. L’Italia dedica l’1% del Pil alla ricerca mentre la Germania ne dedica il triplo. Scivoliamo sempre più in basso perché sappiamo solo tagliare la ricerca, il pensiero e le arti. Questa è la malattia italiana: non essere ancora una vera repubblica. Repubblica è comunità e cosa pubblica, di tutti e non di un monarca!

Siamo una democrazia repubblicana imperfetta e marcescente. La nostra storia è, come ho scritto nel libro Decolonizzare l’Italia, la storia di una terra che sin dai tempi dei fenici e dei greci è stata colonizzata. I romani erano una “città”, non un popolo.Tito Livio scrive che Romolo raccolse gente che veniva da tutti i posti; malfattori, ladruncoli e poco di buono, fondando così Roma. E Roma è sempre stata “Urbs” che parla a “orbi”, al mondo. Roma colonizzò l’Italia e tutti i suoi popoli. L’Italia era la prima colonia romana. Per millenni siamo stati colonie di altri stati-nazione europei fino alla colonizzazione dei Savoia. Dico colonizzazione perché i Savoia erano una dinastia francese. La Savoia non è una regione italiana. I Savoia erano duchi e sono diventati Re acquisendo la Sardegna, diventando prima Re di Sardegna e con l’unificazione re d’Italia. Occuparono militarmente il Sud Italia: interi paesi furono distrutti e gli abitanti fucilati. Milioni di loro se ne andarono verso le lontane “Americhe”. E non siamo ancora una nazione, non dipendiamo ancora dal potere tuttora “temporale” del Papa? Solo in Italia i cittadini versano le tasse al Papa mediante il dispositivo infernale dell’otto per mille. I francesi o gli spagnoli, cattolicissimi, non danno i soldi al papa per legge e non pagano l’Ici del Vaticano. La chiesa cattolica ci impone come nascere, come vivere e come morire. Ma non dal punto di vista etico, bensì da quello dallo spirito che detta le leggi: contro l’aborto e sull’uscita coatta dalla vita. Siamo ancora colonia della chiesa cattolica e nell’ultimo ventennio colonia di un novello padrone: Silvio Berlusconi. Queste sono due malattie della repubblica degli italiani. Questo “sgoverno” ha smantellato il welfare, la cultura, la scuola e l’università, le arti e le vite.

Spiegato in questi termini questa malattia dell’Italia sembrerebbe essere arrivata allo stadio “terminale”, di difficile guarigione. Molti docenti, quando vanno in pensione o cambiano ateneo, dichiarano che l’esperienza più bella avuta dall’università è stata il rapporto con gli studenti. La sua lettera lascia intravedere un messaggio di speranza: che consiglio dà quindi agli studenti e ai giovani su come affrontare questa situazione non solo nell’immediato, ma anche in un futuro meno prossimo?

Questa riflessione/domanda è molto importante venendo da un giovane. Come si fa a risanarci da questo orrore che ci è capitato e che abbiamo voluto noi stessi? Io so quello che farò: se finora ho resistito qui dentro, ora vado fuori a parlare ai bambini e ai malati, agli anziani e alle maestre. Allo stesso tempo nel mio piccolo continuerò a condurre un’opera di risanamento culturale. Noi intellettuali abbiamo guadagnato rispetto se abbiamo lottato in questi anni per la civiltà e non per la barbarie. So di averlo fatto, ma ora abbiamo un compito. Risanare, come e quanto sarà possibile, la vita culturale e mentale delle giovani generazioni. Ho speranza in loro e per loro, ma pretendo che reagiscano sul serio. Se non gli studenti universitari delle facoltà umanistiche, per primi chi allora? Gli operai che vanno sui tetti costretti dalla disperazione, perché non riescono a mantenere i figli? Non si può chiedere a loro anche questo. Dovremmo chiederlo ai farabutti che si riciclano? Dobbiamo farlo noi che abbiamo tenuto il fronte della resistenza e che abbiamo ancora qualcosa da dire e da fare. Ma voi dovete aiutarci ad aiutarvi. Se siamo scollati e dispersi, sarà molto difficile. Non credo che quelli che verranno dopo Berlusconi faranno delle leggi perfette e buone. Non mi pare che ci siano in Italia persone veramente capaci di civiltà e giustizia.

Non bisogna mai mollare l’attenzione sul potere, non lasciare che coloro che vanno al potere facciano i loro fatti. Prendere esempio da un giornalista come Marco Travaglio, che lo fa con sagacia e ragione. Deve ristabilirsi in Italia una critica civile della ragione. Com’è possibile tagliare le arti nel paese delle arti, in Italia, nazione che ha costruito ville e palazzi e scritto musica per il mondo intero? I teatri sono costretti ad auto-finanziarsi ospitando matrimoni. I valori di una repubblica vera sono il welfare, lavoro e dignità per i giovani e le donne, coscienza e conoscenza.

Ogni anno ad Ottobre la Liguria frana e a Settembre sono franate Campania e Sicilia. Tutta l’Italia frana. Sfrenati a costruire a tutto spiano col cemento ovunque. Noi stiamo molto al di sotto del livello mentale e culturale della civiltà europea. Abbiamo dato la possibilità ad una classe dirigente di farabutti di “sgovernarci”. Arrivando non solo a tagliare le risorse alla scuola e all’università per risanare i conti dello stato, ma addirittura alle arti! In Italia, come altrove, è una bestemmia.

Il messaggio che manda agli studenti è che le cosa che le sta a cuore è una collaborazione assoluta tra corpo docenti e corpo studenti. Allo stato attuale vede dei segnali positivi in tal senso?

All’interno dell’università no. Vedo solo una difficile e un po’ stentata protesta contro la Gelmini e contro la nuova riforma. I docenti dovrebbero chiudere le università. Invece si barcamenano. I partiti politici non danno nessun lume perché non ne hanno per sé. Gli studenti non possono avere la maturità e la responsabilità politica per opporsi frontalmente al degrado generale. Non possiamo chiedere ai ventenni una forza politica tale da chiudere l’università davanti ad una legge sbagliata, e con un corpo docente “slabbrato” e depravato dal potere.

Lei sta constatando che da parte del corpo docenti sia stato assorbito l’insegnamento che gli italiani stanno ricevendo negli ultimi 30 anni da parte della stampa?

Direi di sì. Ci sono le eccezioni, come sempre. Ma le eccezioni oggi non riescono a trovare e ricevere udienza pubblica. Non sono accettate dalla comunicazione di massa, se non in piccolissime nicchie come nelle trasmissioni di Augias, a ora di pranzo su Rai3, dove la cultura libera degli scienziati e dei filosofi, degli storici e dei letterati ha ancora cittadinanza. Altrimenti, dobbiamo accontentarci, ma io non mi accontento affatto, di Fabio Fazio, il quale fa cultura-spettacolo che sembra illuminata, ma in realtà serve il mercato, con una patina di sinistra politicamente corretta e buonista. Umberto Veronesi ha pubblicato un best seller annunciato, non uno scritto di medicina ma di “humanitas”, va da Fazio. Tony Blair ha appena pubblicato il suo capolavoro, Tony Blair va lì. Non è questa la cultura, è solo spettacolo-vetrina di celebrità. Ho ricordato Augias perché ogni giorno parla di un libro con un scienziato, con un filosofo, con un teologo o un ricercatore sociale, facendo esporre il loro pensiero e non rinunciando, lui per primo, alla vera conversazione critica, e non attraverso interviste melense e ammiccanti come quelle di Fazio, che cercano solo applausi – e spesso per Fazio. Augias esprime un suo pensiero perché ce l’ha, Fazio no, è solo un bravo trafficante di comunicazione televisiva. Siamo ridotti, insomma, a “Che tempo che fa?” e al programma di Augias, entrambi poi sul canale Rai3. I canali di Berlusconi non sanno cos’è la cultura. Ospitano barzellette e mignotte, “sgarbi” e “marchette”. Gli altri due canali pubblici si sono, negli ultimi 10 anni, sempre più allineati sul format berlusconiano. La7, idem. Sky è commerciale, non è protetta dallo stato perché non è Mediaset, ma fa del giornalismo decente, quello che le televisioni di stato e parastato non vogliono e non saprebbero fare.

Ricordando personaggi scomparsi di recente e rilevanti nel nostro piccolo come l’indefesso giornalista Pietro Calabrese e personaggi di importanza globale come Levi Strauss sono stati, in contesti differenti, professionisti e/o intellettuali che avevano un terreno fertile nel quale lavorare. Vivevano in un contesto socio-culturale predisposto nei confronti di figure di questo tipo. Attualmente troviamo una sorta di ostracismo verso chi vuole approfondire e diffondere l’oggetto dei propri studi. Secondo Lei le generazioni a seguire avranno un terreno altrettanto fertile?

In Italia il terreno fertile attualmente è fertile di idiozie, violenza e volgarità. L’Italia nei confronti dell’Europa è una nazione che non lo è mai diventata. Portogallo, Inghilterra, Spagna e Francia hanno creato la modernità. La nostra storia invece è handicappata. Dopo la notte che non passa mai non so se l’Italia abbia in serbo una rinascenza repubblicana.

Un consiglio ai giovani?

Non perdere la speranza, “spes ultima dea” dicevano i latini. La Speranza è stata l’ultima a rimanere tra gli umani ed è allacciata alla giovinezza. Se non l’avete voi non so come sia possibile per tutti noi rifiorire. Speranza non vuol dire aspettare che il mondo cambi ma vuol dire fervore. La mia generazione immaginò una “rivoluzione”. Oggi non ha più senso pensare e parlare così.

Qual è il ricordo più bello legato a questa facoltà?


Non ho nessun bel ricordo legato alla mia docenza a Lettere. Ho sempre vissuto con rabbia e lottando contro. Cercando di non soccombere. Ho buoni ricordi della mia vita con gli studenti: con loro abbiamo fondato una rivista critica di letteratura comparata che era letta in tutto il mondo scientifico internazionale. Ha avuto vita dal 1990 al 2000, si chiamava I Quaderni di Gaia, vi scrissero i maggiori comparatisti del mondo, accanto ai miei allievi. Rarissimamente ospitammo contributi accademici italiani. Finì perché non trovammo più un editore. Con il sopravvento di internet non era più possibile pubblicare su carta una rivista senza avere molti soldi.

Parlando di interdisciplinarità, com’è stato il rapporto tra i vari docenti anche dello stesso dipartimento?


Un muro di chiusura. Come fanno gli israeliani coi palestinesi: “Il territorio è mio, tu stai dietro il muro e non rompere”. Come docente sono stato uno straniero in terra straniera. Da studente fui invece lieto allievo di grandi maestri: Emilio Garroni, Tullio De Mauro, Guido Calogero,Walter Binni, Giulio Carlo Argan

Parlando della sua formazione culturale, come si è avvicinato alle letterature comparate e alla creolizzazione delle letterature?

Mi sono avvicinato a questa disciplina, essendo in Italia uno dei primi e pochissimi a praticarla 30 anni fa, mentre in tutto il mondo i dipartimenti di comparatistica sono i più vivaci e ricchi, facendomi incuriosire da un fenomeno che nasceva nel 1990 e che io ho intercettato per primo: ovvero gli scrittori “immigrati” che pubblicavano in Italia. Su questo fenomeno nascente scrissi un libro nel ’92Il rovescio del gioco in cui proclamai che qualcosa di nuovo accadeva nelle patrie lettere perché in italiano scrivevano persone che venivano da tutto il mondo. Scrivevano per farci sapere che esistevano e pretendevano l’ascolto. Attraverso gli scrittori migranti ho aperto il raggio del mio interesse sulla letteratura mondiale. Letteratura mondiale che però era eurocentrica, incentrata sull’occidente e sull’Europa. E fuori dall’Europa? Cominciai a mettermi all’ascolto degli indiani, dei caraibici, degli africani etc. In questi giorni esce presso Bruno Mondadori (non Arnaldo Mondadori!) il libro La letteratura del mondo nel XXI° secolo sullo stato della letteratura mondiale oggi, che ho scritto in collaborazione con le mie allieve Nora Moll e Franca Sinopoli.

Lo stato della letteratura italiana attualmente qual è?


Non riesco ad entusiasmarmi con la letteratura italiana contemporanea. Le opere proposte sono deprimenti. Lo stesso Gomorra è scritto abbastanza male. Saviano è un giovanotto che vive recluso ed è stato portato a credersi un illuminato, crede d’aver capito il mondo e di saperlo spiegare agli altri. Mi sembra che Saviano venga sempre più “prodotto” come un mito mediatico da parte della comunicazione di massa politicamente corretta. È preoccupante che questo giovane non venga più educato e fatto crescere nel suo talento, e che venga solo e continuamente “celebrato” in quanto recluso. Un altro esempio: La solitudine dei numeri primi è un libro per gente che è felice! Se uno sta minimamente preoccupato per come va la vita sua e in Italia con questa libro si deprime. Sembra una cura depressiva, una storia tristissima e inutile: un milione e mezzo di copie, un libro così mi sorprende! Perché temo che impedisca a molti di leggere Dostoevskij, solo perché è morto da tanto tempo, non è attuale ecc. La Mazzantini non sa narrare. Scrive in un italiano pesante e insoluto, romanzi grossi, scollati e malmessi. Emmaus di Baricco è penoso, non sono riuscito ad arrivare alla terza pagina. Cosa devo pensare della letteratura italiana contemporanea se mi dà solo cose insignificanti, deludenti e deprimenti?

Leggo i miei contemporanei del mondo: africani, caraibici, indiani come Rushdie, Vikram Seth oAmitav Ghosh, Cormac McCarthy, De Lillo, latino-americani, qualche buon poeta europeo; e Dostoevskij! La letteratura italiana contemporanea è una combriccola di combriccole che si sostengono a vicenda e che si appoggiano alla comunicazione di massa di Mondadori e compagni per arrivare alla poltrona di Fabio Fazio. Antonio Albanese, invece, è un genio.

Lei ha lasciato agli studenti un messaggio incoraggiante. Che messaggio lascia invece ai docenti suoi colleghi e ai futuri docenti, che attualmente potrebbero essere i suoi studenti?

Ai miei colleghi non lascio alcun messaggio. Ai giovani che intendono intraprendere la carriera universitaria dico che la situazione è infame. Un mio allievo palermitano, che ho esortato a scrivere un saggio dalla sua bella tesi di laurea, mi mandò una mail segnalandomi un fatto di cronaca agghiacciante: Norman Zarcone, dottorando di 27 anni in Filosofia del Linguaggio alla facoltà di Lettere di Palermo, stava per presentare la tesi di dottorato ma si era buttato dal settimo piano. Il padre, forse eccedendo, parla di omicidio di stato. Questo giovane pre-ricercatore era molto preoccupato dalla precarietà che lo attendeva nella difficile carriera di ricercatore. Prima che essa arrivasse lo ha consumato: la precarietà! Se è questo il destino che la nostra mala società offre alle giovani intelligenze dico che è veramente difficile dare speranza ai ragazzi. Se l’unica speranza siete voi, questo non vale per fare carriera universitaria. Dare speranza su questo punto è nocivo, non si può illudere i giovani. L’assegno di ricerca e il posto di dottorato lo daranno ai “figli, ai nipoti, agli amici di QUELLIche comandano. Non puoi non incitarli a provarci, ma non puoi illuderli minimamente. Anzi, bisogna educarli prima. La situazione è la peggiore possibile, soprattutto nelle facoltà umanistiche. Il padre di Norman Zarcone non è un barone di medicina, non è un editore famoso, non è un capomafia né un governatore. Se il padre fosse stato uno di queste eccellenze forse Norman avrebbe avuto meno angustie d’animo per il suo precariato.

Io non vendo fumo e materassi, non posso illudere. Creare illusioni ai bambini e ai giovani è un peccato gravissimo. Il giovane ci crede perché ha speranza ma non può essere prodotta dall’illusione. Possiamo e dobbiamo essere guide: esortare dicendo a chi lo meriti: ”tu sei bravo, scrivi un saggio, ti guido e ti aiuto a pubblicarlo”, ma non posso dire “tu sei bravo, avrai un posto da ricercatore”.

terça-feira, 21 de setembro de 2010

Lettera agli studenti

6 settembre 2010
Cari Studenti,
bentornati, e benvenuti ai nuovi iscritti.
Dal primo novembre del 2010 non mi troverete più tra i vostri docenti, perché ho deciso di andare in pensione anticipatamente dando le dimissioni volontarie dall'università.
Ci tengo a comunicarvi ufficialmente e sinceramente questa notizia perché sappiate con chiarezza e certezza il motivo della mia sparizione. Viviamo, infatti, in un'epoca in cui la menzogna, la volgarità e l'oblio informano la comunicazione e formano addirittura la nostra educazione.
Continuo altrove e altrimenti a lavorare per la giustizia e la compassione mediante il sapere umanistico.
Vi saluto assicurandovi che l'unica parte dell'università dalla quale non mi sono dimesso è la vostra. Anche se non mi avrete mai incontrato e conosciuto.
La parte migliore della mia lunga carriera accademica è segnata, infatti, dai 4 anni di formazione in Filosofia presso la nostra Facoltà, dal 1964 al 1968. Allora ho vissuto la sapienza come un convivio e una famiglia. Nella educazione alla conoscenza con gioia, rispetto e speranza. Insieme ai miei indimenticabili compagni di studio e ai nostri maestri. Voglio ricordarvi i nomi per me più importanti tra loro: Emilio Garroni, Guido Calogero e Tullio De Mauro; Santo Mazzarino e Arsenio Frugoni; Giulio Carlo Argan e Walter Binni.
Poi, per quaranta anni, ho vissuto la professione accademica come uno straniero in terra straniera. Tanto che mi sono sentito più ad agio nelle università spagnole e egiziane, statunitensi e slovacche, giapponesi e argentine, che in quelle patrie.
È per questo motivo che considero ancora, e sempre, la condizione studentesca come quella più fortunata nell'università. E perciò ho sentito in questi anni voi come i miei veri colleghi.
Anche se proprio per voi, è diventato sempre più difficile vivere questo luogo come sede della conoscenza, della familiarità, del rispetto e della gioia.
Vi chiedo, in ultimo, di non perdere speranza, in voi stessi e nella comune repubblica, che sembra tramontare sull'orizzonte civile degli italiani, invece che venirci incontro come "il sole dell'avvenire". Sappiate che solo voi potete ogni volta che lo vogliate far risorgere il desiderio e il fervore di un "brave new world", come scrive Shakespeare ne La Tempesta. L'utopia di un "meraviglioso mondo nuovo", al quale tutti abbiamo diritto. E per il quale serviamo noi letterati: per poterlo immaginare e tradurre. E per indicarlo come il valore finale di una educazione che non può finire mai, come ci hanno insegnato i nostri antenati latini.
Scrivetemi, se volete. Vale.
armando gnisci
agnisci@yahoo.it

segunda-feira, 20 de setembro de 2010

A literatura mundial como futuro da literatura comparada

…Sic rerum summa novatur
semper, et inter se mortales mutua vivunt.
Così l’insieme delle cose sempre
si rinnova, e i mortali vivono insieme le cose tra loro comuni.

Lucrezio, De rerum natura, II, 75-76

A partir da proposta que o título deste artigo contém, parece-me essencial definir o que entendo como literatura mundial, bem como a razão e o modo de estudá-la hoje.

Para corroborar tal proposta, recorro a Auerbach, em 1952, em Philologie der Weltliteratur, e à pergunta feita por Michel de Montaigne, que há de guiar-me nesta reflexão: Que sais-je?

O que é a literatura mundial hoje? Esta é a pergunta que procurarei responder, reinterpretando criticamente a história deste conceito desde a pergunta a que me referi no parágrafo anterior, passando pelas reflexões de Auerbach, e mantendo o ano de 1952, como o ponto de partida para a atualização da nossa consciência histórica.

Auerbarch definiu a importância e o valor da consciência histórica européia a partir da filologia:
Isto é o que somos; o que nos tornamos na nossa história; só nela podemos permanecer os mesmos e ainda assim nos desenvolvermos; demonstrá-lo de modo penetrante e inesquecível é o propósito dos atuais filólogos do mundo. Adalbert Stifter ao fim do capítulo “L’avvicinamento” em Estate di San Martino, faz com que um de seus personagens diga a seguinte frase: “Seria altamente desejável que, ao fim de uma ventura humana, um espírito pudesse reassumir e abraçar com o olhar a inteira arte do gênero humano, desde a sua criação até o seu fenecer.” Stifter pensa que apenas na arte figurativa; nem creio que se possa falar mesmo do fim da humanidade. Parece-nos que ele se refere a um tempo de conclusão e de execução que permite um olhar panorâmico antes impossível”[1].

A literatura mundial enquanto conceito sobrevive em um mundo radicalmente diferente daquele em que Auerbach escreveu, não apenas pela existência da assim chamada globalização, mas, sobretudo, no que diz respeito a um ponto de vista “espiritual”: a consciência histórica mundial de um literato europeu hoje, no século XXI; que já não é mais a de Auerbach, de Thomas Mann, de T. S. Eliot e de Benedetto Croce, porque esta se revela “reformada”– entre tantas outras reformas – por uma descolonização da mente européia, pós-burguesa e extra-européia, que Auerbach e Croce jamais poderiam conceber. Ainda que aquela geração tivesse convivido com o início da descolonização de que falo.

A atual cultura literária mundial não é mais um sonho, conforme foi anunciada nos escritos de Goethe, mas uma indústria e um mercado, como Marxs e Engels preconizaram. Nela a mundialização se completou, e, talvez, sem mais esperanças confiáveis e ideologias incômodas, lançou-se a um futuro aberto, que podemos chamar de “laico”, ainda que de modo imperfeito.
Por “laico” entendo o que nos foi transmitido por Tito Lucrecio Caro, que, não por acaso, cito na epígrafe a este artigo. “As coisas mandarão luz às coisas” significa que para todo o futuro, desde Lucrécio até nós, e mesmo no futuro daqueles que serão leitores posteriormente, cumprir-se-á o mandato do De rerum natura, ou seja, o conhecimento será fruto de um intercâmbio de luzes entre as coisas.

O nosso século pode ser intitulado “sistema-mundo”, segundo o sociólogo americano Immanuel Wallerstein; uma época em que o universalismo europeu, de descendência goethiana, chegou ao fim.

O que nos cabe fazer, literatos e leitores do século XXI, mas de uma geração nascida e formada no século XX? Por um lado, há que aceitar respeitosamente essa hereditariedade européia, por outro, há que transmiti-la criticamente, a contrapelo, como sugeriu Benjamim, e revisitá-la de modo absolutamente crítico.

A descolonização do “espírito europeu” começa como uma crítica do desejo de potência eurocêntrico, irradiado por todo o planeta. Desejo que surgiu com a formação dos estados nacionais e se expandiu como uma estupenda visão imperialista que se apossou do mundo conhecido já em 1522, com a expedição espanhola de Magellano.

Se nos anos 60 do século XX, parecia-nos que, nas universidades, não havia nada mais a estudar além de páginas de uma historiografia da dominação, em outras partes, os anos após a segunda guerra mundial revestiram-se de novos valores; aqueles do pensamento anticolonial, que acompanhava a luta dos países oprimidos para livrarem-se do colonialismo europeu, que só em parte corresponde ao que hoje se denomina “Estudos Culturais”.

Tratava-se um pensamento europeu, de Bertold Brecht a Sartre, até a um inédito Gramsci, descoberto e depois venerado pelos anglo-indianos dos Subaltern Studies anglo-indiani[2]; mas, sobretudo, extra e antieuropeu, de Ho Chi Min, Frantz Fanon, Aimé Césaire, Agostinho Neto, dos miti eroici da revolução cubana, de Toni Morrison, Salman Rushdie, Èdouard Glissant, Ngugi wa Thion’go, Derek Walcott, Eduardo Galeano, Roberto Fernández Retamar e tantos outros.

Ao usar a palavra “antieuropeu”, não pretendo referir-me aos terroristas que habitam os nossos televisores, mas a uma esfera de encontros pacíficos entre seres de culturas conhecidas e opostas da era moderna. Encontros em que os ex-colonizados têm a oportunidade de falar aos ex-colonos e serem ouvidos. Condição esta que dá aos europeus a chance de aprender a ouvir. Uma ausculta que, em cinco séculos, fomos incapazes de conceber.

Hoje, também nós, italianos, podemos ler a poesia de Agostinho Neto, que guiou a nação angolana na guerra pela libertação do colonialismo português. Nos versos que reproduzo, pode-se inferir a presença do europeu através da descrição da vida do povo colonizado:

Latas pregadas em paus
fixados na terra
fazem a casa

Os farrapos completam
a paisagem íntima

O sol atravessando as frestas
acorda o seu habitante

Depois as doze horas de trabalho
Escravo

Britar pedra
acarretar pedra
britar pedra
acarretar pedra
ao sol
à chuva
britar pedra
acarretar pedra

A velhice vem cedo

Uma esteira nas noites escuras
basta para ele morrer
grato
e de fome.

O poema contém questões que cabem a todos os países colonizadores responder, não apenas Portugal.

Ao enxertar criticamente “ao desejo de potência” dentro do fenômeno histórico plurissecular do colonialismo europeu na modernidade, que parecem não ter fim- o colonialismo e a modernidade-, busco encontrar o nexo, o sentido do que havemos denominado “o fardo do homem branco”.

Para entender o significado da expressão, “the white man’s burden”, há que ler a poesia homônima de Rudyard Kipling, escrita em 1898, em honra dos E. U. A., que andavam em conflito militar com o decadente, e então reduzidíssimo, império espanhol: na parte do Atlântico, nas Caraíbas, invadindo Cuba e anexando as Antilhas, e da parte do Pacifico, invadindo as Filipinas. Guantanamo, que volta e meia aparece na agenda de notícias dos jornais, devido a seu famigerado cárcere, é um resíduo colonial dos E. U. A. em solo cubano.

A interpretação deste poema de Kipling sustenta que ele anuncia e celebra a passagem do poder colonial da velha Inglaterra para a jovem democracia americana, em nome dos valores sacros e comuns do homem branco e anglo-americano (W.A.S.P. = White– branco; A. S. – anglo-saxônico; Protestant – protestante).

O fardo do homem branco, portanto, consiste na missão de civilizar os povos ainda “bárbaros” e levar-lhes a democracia ocidental, assim como nós, italianos, fizemos na Somália de 1950 a 1960, com a concessão da ONU, ou como os americanos o fazem agora no Iraque e no Afeganistão.
A “civilização ocidental” de Agostinho Neto continua a fazer o contraponto inexorável ao desejo de potência e à máscara do fardo do homem branco, de Kipling.

A reação à colonização cultural imposta pelos países colonizados torna necessário que se veja a literatura produzida fora do circuito das nações européias de uma forma diversa. Não mais como textos literários extra-europeus pertencentes a literaturas exóticas e menores. Hoje estamos em condições de conceber e fruir a literatura mundial de modo que cada uma das literaturas nacionais européias seja vista como uma Provincia mundi.

No fim do ensaio sobre a filologia da literatura mundial, Auerbach cita uma frase de Ugo di S. Vittore, teólogo agostiniano do século XVII:

“Magnum virtutis principium est, ut discat paulatim exercitatus animus visibilia haec et transitoria primum commutare, ut postmodum possit etiam dereliquere. Delicatus ille est adhuc cui patria dulcis est, fortis autem cui omne solum patria est, perfectus cui mundus totus exilium est…”[3]

Auerbach recorre ao texto filosófico medieval para propor um pensamento que define com a expressão Paupertas e terra aliena. Tal pensamento nos habilita a crer, em 1952, que: “a nossa pátria filológica é a terra [die Erde]; não pode mais ser a nação […] Devemos retornar, em circunstâncias diferentes, ao que a cultura medieval possuía antes da formação das nações: o reconhecimento de que o pensamento não tem nacionalidade.” [p. 71].
Há mais de um decênio que se discute a superação da dimensão nacional no golfo místico da globalização, ainda que se não de certo no exílio do transcedental terrestre invocado por Auerbach.

Proponho que reassumamos a cultura de hoje na consideração histórica que parte da consciência cósmica e de espécie[4] para poder conceber uma consciência mundial e para adquirir a nossa consciência européia, acolhendo dignamente toda a responsabilidade[5] desta condição. Por fim, estaremos aptos a conquistar uma consciência critica da própria nacionalidade, a partir, primeiramente, daquela que é linguística[6].

Advogo que, contemporaneamente, adotamos um modelo de relações que pode ser definido pela sigla NEM, isto é, pela ordem de importância, Nação, Europa, Mundo. A este se contrapõe uma outra, inversa, MEN, em que a ordem valorativa é contrária.

A Nação torna possível falar, pensar, ler, traduzir e entender; essa se revela a razão histórica de ser e da própria materialidade primária da comunicação, a da língua. A Europa constitui a nossa mente e suas imagens comuns, que são diferentes daquelas de outras civilizações. O Mundo reassume tudo no seu horizonte último e ordena tudo que temos certeza de saber.

Os dois percursos formam traços contínuos de duas frentes que se entrecruzam, incessantemente.

No início do segundo decênio do terceiro milênio, pode-se dizer que há uma mundialização literária em muitas partes do globo, que não é mais aquela sobre a qual Auerbach se interrogava, ainda que os acadêmicos continuem a debatê-la nessa mesma esfera. A Literatura Mundial não teria razão de ser se fosse só o argumento e domínio das cátedras e institutos de pesquisa acadêmica[7] e se não fosse, sobretudo, uma comunidade sempre aberta e mundial de leitores.
Hoje, a ideia e a realidade de uma Literatura Mundial parece se assemelhar um pouco àquela sonhada por Goethe, escritor-leitor, mais que erudito, mas de um modo menos entusiasta e mais realista, ainda que seguramente mundial em um sentido claro e completo.

A mundialização literária ainda é tímida. Há, por exemplo, pouquíssimos leitores na África, ainda que haja muitos escritores africanos que são lidos por leitores europeus e de muitas outras partes do globo. Recordo-me apenas de um nome de tal penetração, o de Ahmadou Kourouma, narrador francófono da Costa do Marfim, morto em 2003, que como a maior parte dos escritores africanos escreveu para a África inteira, como uma grande pátria e não apenas para a sua própria nação. A esta identificação pan-africana, os escritores do norte da áfrica parecem fugir, como, por exemplo, o Premio Nobel (1988) egípcio Nagib Mahfuz.

Os escritores africanos, sul-americanos e asiáticos têm sido lidos em todo o mundo, entretanto, e muitos deles são migrantes e estão no exílio, como Chinua Achebe, Wole Soyinka, Ngugi wa Thiong’o, ou o Nobel chinês (2000) que vive na França, Gao Xingjian. Estas “injustiças” fazem parte da história de todas as literaturas, porém, em nosso tempo, TAM uma dimensão mundial. Nós, literatos, devemos fazê-la pública, “dizendo a verdade”, conforme nos ensinou Edward Said[8], e contra isso, devemos reagir, começando por nossa própria casa, e não pensando que ela é menos imune à infestação da intolerância em relação aos escritores. Essas injustiças são fruto do nosso tempo; o tempo da mundialização da vida da espécie; o tempo da globalização do regime capitalista. Uma face deformada da mundialização que não é vista pelos cidadãos como emancipação espiritual e como crescimento moral, mas como sistema de domínio generalizado e incontestado dos aparatos dos mercados fiananceiros que determinam as políticas dos estados nacionais e a nossa ventura pessoal. Descolonizar e mundializar as mentes torna-se a única prática civil que podemos contrapor a essa nova forma de “vontade de potência”.

A globalização da indústria cultural, de fato, sobrepõe-se a uma barragem moral progressiva e generalizada, determinada pela indústria do espetáculo e pela comunicação de massa que define cada produção cultural como um evento comercial de acordo com a vontade e controle do poder econômico-político. O que fazer? Não podemos, certamente, nos alinhar de um modo apenas teórico e impulsivo em favor da mundialização dos leitores africanos, como se esta fosse auspiciosa— um adjetivo indefensável e hipócrita, e, portanto, útil em um caso como este; em que se prescinde das questões e das soluções das carências da fome, da sede, das doenças, dos direitos humanos e civis, da estabilização e do bem-estar das pessoas e nações em todos os países oprimidos e explorados das “zonas injustiçadas” do planeta. Mediante tal quadro, nos cabe trabalhar por um aumento da formação humanística dos cidadãos dos países em que vivemos e daqueles outros com os quais possamos contribuir. A começar pela Itália, que é a última nação naquele ramo do desenvolvimento civil, no grupo das nações “ricas” do mundo.

Tudo isto serve pra mostrar o segundo ponto de diferença e de evolução do meu discurso em relação à ideia de Literatura Mundial que Auerbach sustentava em 1952. Refiro-me, portanto, ao segundo ponto depois da mundialização literária conquistada por aquela parte de minha geração que aprendeu o colóquio com os mundos dos escritores africanos, latino-americanos, caraíbas, asiáticos, além daquele dos europeus e norte-americanos. Os que a aprenderam, difundiram-na o mais amplamente possível, e os que não a aprenderam, poucotiveram o que dizer. Ela está presente hoje, em nosso panorama literário e civil, ainda que pouco a considerem ou usem-na como o “caminho para a mundialização”, preferindo vê-la e reduzi-la a uma visão “especialista” pós-colonial, e tratá-la como um campo erudito real, que abrange as literaturas nascidas após o fenômeno do colonialismo, mas que se constituíram ainda em sua vigência. Este modo de entender e protocolar o colonialismo, a sua importância, seu destino e seu conhecimento, leva-o a ser considerado, na Europa, um fenômeno secundário, colateral e, portanto, “especialista” da história da civilização ocidental.

Depois da Segunda Guerra Mundial, em 1949, no início do boom econômico, foi lançada na Itália uma coleção de textos canônicos de todas as literaturas, antigas e modernas, européias e extra-européias, a “Biblioteca Universale Rizzoli”. Ela foi responsável pela formação de uma geração de leitores “universais” e para-escolásticos, que aderiam, ser saber, ao ideal de Goethe, ao invés daquele de Auerbach, centrada, como já vimos, na apreciação dos estudos filológicos e literários, e com o intuito de reformar e adequar as condições da cultura literária no pós- guerra. O lançamento da coleção tornou-se uma oportunidade de dar forma a uma “autoeducação literária”, que se emparelhava com o currículo obrigatório das escolas.

Para muitos, como eu, a coleção significou um encontro com os escritores importantes do mundo: alemães, franceses, anglo-americanos, russos. No entanto, hoje, posso dizer que ela era também “eurocêntrica”, embora se afirmasse “universal”, posto que ignorava os autores da América Central do Sul, com exceção de Machado de Assis. Ainda assim, foi responsável pela mundialização de minha mente, uma vez que educava para a liberdade do imaginário, por meio da autoeducação literária; ao mesmo tempo em que procurava e assegurava um horizonte terrestre mediante uma espécie de expectativa, de “esperança sacra”, em um mundo que tivesse a literatura como a linguagem comum do imaginário. Hoje, em 2010, posso afirmar que o estudante italiano só tem essa oportunidade através das novas mídias, como a internet, porque a escola está empobrecida enquanto instituição.

A evolução da leitura literária na Europa depois da Segunda Guerra Mundial representou um passo adiante na nossa consciência histórica e ensinou a uma parte dos jovens europeus a meta do século a tornarem-se “leitores mundiais”; abertos a todas as vozes e à escritura dos mundos até agora conhecidos, traduzidos e não auscultados, uma vez que eram oprimidos. Ao mesmo tempo, ensinou-lhes a ser parte de um dos mundos do “mundo”.

Esta evolução tornou-lhes aptos a tentar responder a cinco séculos de questionamentos ainda sem resposta, lançados a nós, europeus, que nos comunicamos em todas as línguas do mundo, mas, sobretudo, na nossa; assim como o deformado e selvagem Calibã, da Tempestade, de Shakespeare, anunciou, quando agradeceu Próspero por ter-lhe ensinado o inglês, de modo que pudesse, assim, maldizê-lo melhor em sua própria língua.

Desde a minha geração, a Itália tem tido a oportunidade de receber emigrantes de todas as nações que passaram pela colonização. Eles vêm à procura de um trabalho digno visto que seus países, “independentes”, estão à mercê das necessidade e consumo dos países ricos.

Em 1987, o mesmo ano em que venceu o prêmio Nobel, o poeta russo Iosif Brodskji, exilado da União Soviética desde 1972, escreveu o ensaio “A condição que chamo de exílio” para uma conferência que ocorreu no mês de dezembro do mesmo ano, em Viena. Aconselho-os a lê-lo. É um texto breve, mas importante, que nos coloca diante da graça do humanismo em sua dimensão histórica, literária e mundialista:

“Demos falar porque necessitamos dizer e repetir que a literatura é uma mestra de finesse umana, a maior de todas, seguramente melhor que qualquer doutrina; dizer e repetir que, ao bloquear a existência natural da literatura e a atitude das pessoas a aprender as lições por ela dadas, uma sociedade reduz seu próprio potencial, diminui o ritmo de sua própria evolução e, talvez,coloca em perigo a sua própria tessitura.” (pp.15-16).

Penso que o escritor martinicano Édouard Glissant encontrou outra medida do nosso tempo, chegando a construir uma poética do Mundo Novo no qual vivemos todos juntos: a da crioulização. Em Poética do diverso, ele afirma que o mundo se criouliza, tornando-se consciente de que a humanidade abandona, ainda que com dificuldade, a visão de que uma identidade só é válida e reconhecível a partir da exclusão de outras identidades.

Considerando-se que Glissant é um escritor antilhano, que escreve em francês e descende de escravos, e não um filólogo alemão, e nem mesmo um religioso, de que modo ele fala de crioulização? Vejamos:

“A crioulização exige que os elementos heterogêneos, em relação, se valorizem reciprocamente, sem a degradação ou diminuição do ser. Porque a crioulização é imprevisível, enquanto que os efeitos da mestiçagem são mensuráveis. A crioulização é a mestiçagem com o valor adicional do inesperado.”[9]

A crioulização é o que também sucede na Europa, sobretudo nos últimos trinta anos, provocada pelos escritores migrantes que contribuem para a produção de um novo imaginári comum nas línguas européias.

A uma pergunta minha, em mensagem particular, sobre qual era o seu idioma natal e se ainda se comunicava através dele, o escritor de origem siberiana Nicolai Lilin, que vive há alguns anos em Piemonte, respondeu:

“A língua russa é minha língua materna. Nunca tive a oportunidade de aprender os dialetos siberianos em que meus avós se exprimiam, porque, quando eu nasci, a nossa sociedade já não os usava mais, tudo era dominado pela língua russa. Agora a língua que mais uso é a italiana, quase não falo mais em russo, apenas com os meus familiares, em umas poucas ocasiões. Assim, posso dizer que a primeira língua para mim é a italiana; escrevo em italiano e me relaciono em italiano, até meus sonhos e pensamentos agora são em italiano.”

Ler a obra de Lilin, para nós, italianos, significa expor-se ao imaginário russo-siberiano, que ele nos trouxe através de nossa língua comum. Alguém tem medo de Nicolai Lilin ou de Gezim Hajdari, poeta albanês, que em 1997 venceu o Premio Montale? Sim, certamente, como se faz para decidir colocar em risco a própria “identidaderia”, a nobre e antiga identidade italiana, para unir-se ao brodo inconsciente e regressivo da crioulização com os imigrantes? É com respeito a este o dilema que nos dividimos. Para mim, a crioulização é uma face significativa da mundialização. A defesa retórica de um patrimônio genético-identitário italiano leva apenas ao retrocesso, pensando-se estar firme, e detém-se no presente.
Muitos escritores antilhanos colocaram em cena, nos Novecentos, a resposta de Calibã, cidadão do “Bravo Mundo Novo”, aos novos “senhores” europeus, a partor de Próspero, em sua língua imperial: em inglês, espanhol, em francês, sobretudo. Com o português, que participa com o modernismo dos anos 20, com a resposta antropófaga. Partamos do Brasil: em 1924 o poeta Oswald de Andrade publica o “Manifesto da poesia Pau-Brasil”, no qual afirma: “Tudo digerido”. Do que fala? No “Manifesto Antropófago”, de 1928, mostra o corpo digerido. No “ano 374 da deglutição de Vescovo Sardinha” (p. 34): o primeiro europeu devorado pelos canibais no Brasil. Toda a cultura européia foi devorada pelo Novo Mundo, comida e digerida para educar e instruir Calibã e para fazê-lo tornar-se em um poeta que reescreve e inventa finalmente a literatura do mundo de todos os mundos: “Antropofagia. Absorção do inimigo sacro. Para transformá-lo em totem: a aventura humana.” (pp. 33-34)[10].

George Lamming, escritor anglófono de Barbados, publicou em 1960, uma coleção de ensaios com o título Os prazeres do exílio[11]. É a narração da história de um homem e sua liberação; em um dos textos do livro Lamming propõe uma reescritura de A tempestade. Lamming emigrou para a Inglaterra, dunrate o fluxo da Grande Emigração dos anos 50, das “Índias Ocidentais” – Jamaica, Barbados, Trinidad, Antigua, Tobago – para a ex-metrópole, Londres, favorita do Nationaly Act inglês do 1948, que equiparava os habitantes das colônias aos cidadãos britânicos. No livro, Lammig afirma que preferia o nome “Caraíba” àquele de uso inglês, ou seja, Índias Ocidentais. Edward Kamau Brathwaite, também de Barbados, retoma, anos depois, o tema de Calibã na trilogia The Arrivants: a new Trilogy (1993).

O poeta e crítico cubano Roberto Fernández Retamar, dedicou uma longa e progressiva investigação e reivindicação da figura de Calibã com protótipo da literatura do Novo Mundo e de todos os mundos oprimidos. Seu trabalho está compilado no volume que recolhe trinta anos de pesquisa e discussão intitulado Todo Caliban (2000).

Em 1969, Aimé Césaire publicou Une Tempête. Théâtre. D’après de Shakespeare. Adaptation pour un théâtre nègre, que busca “responder” ao teatro europeu usandoa resposta de Calibã – “enclave nègre”/escravo negro, para Césaire, enquanto que para Shakespeare é “a salvage and deformed slave”/um escravo selvagem e deformado – em nome de todos os negros do mundo.

Convoquei os poetas mencionados, através do “mito” moderno de Calibã, para propor a ideia de que eles renovaram, sem que nós, na Europa o supuséssemos , a possibilidade de pensar e praticar o senso e o valor da literatura mundial durante o Novecentos. Enquanto Auerbach citava com tristeza— não apenas por si mesmo, mas por mim também— “ o mundo como exílio” ao fim do ensaio de 1952, os “ povos negros” das Antilhas, do Brasil, de Louisiana e da África, enviados para a morte nas guerras mundiais como os “tirailleurs senegalais”, pensavam um mundo mais Just e solidário que o dos brancos, e pensavam-no também para nós.

Afirmo, enfim, que a “Literatura do mundo” nasceu na modernidade quando os povos subjugados e ofendidos pelos europeus começaram a ler e a escrever. E, assim, permitiram a todo mundo o mesmo. Todos nós chegamos a compreender quem é Calibã, que é qualquer um de nós, se através da leitura pudermos conquistar esse dom.

Depois de quatro séculos, pois A Tempestade é datada entre 1611 e il 1612, quatro anos antes da morte do Bardo– Edward W. Said, um comparatista e “aluno” de Auerbach e di Vico, mas também de Foucault e Gramsci, escreveu Culture and Imperialism[12].

Entre a maldição de Calibã e a posição do comparatista ocidental-oriental da segunda metade do século XX, transparece diante de nossos olhos um claro movimento de mundialização das literaturas nacionais e das mentes individuais; uma visão, progressiva e liberatória, que os grandes burgueses europeus não poderiam ter. De fato, Said afirma, a propósito de Fanon:
“A sua mensagem é: devemos lutar para liberar a humanidade inteira do imperialismo; devemos narrar a nossa história e a nossa cultura reescrevendo-as de um novo modo; tudos nós compartilhamos essa mesma história, ainda que para alguns de nós ela tenha sido sinônimo de escravidão.”[13]

De italiano europeu com uma consciência mundialista, transformei-me, nos últimos 20 anos, chegando a pensar que a “Civilização ocidental” branca – a que está no título do poema de Neto – inventou o Orientalismo, para avizinhar-se do mundo oriental, conforme ensinou Edward W. Said[14]. Enquanto que a “civilização ocidental” escura – a que submetemos e escravizamos, a que pagou pelo nosso desenvolvimento, inventou uma literatura de protesto e os Estudos Culturais, dos quais Said e tantos outros que são lembrados e celebrados nesses escritos, são os mestres. O Orientalismo tem sido e é uma instituição imaginária e um modismo do saber, os Estudos Pós-coloniais (mesmo já começando a sofrer da erudição e da síndrome da academia Norte-Americana) e as literaturas dos mundos, formam a consciência crítica do protesto de Calibã e da esperança sacra di Agostinho Neto.

O leitor, visto que já exposto a essa dupla visão, poderá fazer a escolha acertada. De um lado, a literatura que através da crítica fala a si mesma de um modo ainda eurocêntrico; e do outro, a literatura em uma perspectiva mundialista, destinada a cada um de nós e a todos, ao mesmo tempo. Importa reafirmar que a perspectiva oferecida por uma literatura mundial deriva do movimento de descolonização e nos levará a dignidade de falar e ler, para podermos, então, sentir e reconhecermo-nos e traduzirmo-nos finalmente na “Pátria” comum que se chama “Mundo”.

Adendo:
Em 1983 organizei uma antologia crítica sobre a literatura mundial, intitulada La letteratura del mondo, pubblicada em 1984 pela editora Carucci, de Roma. Aquele livro inaugurou o meu ensino de Literatura Comparada na Università dgli Studi di Roma, La Spienza. No início, como dedicatória, estava escrito:

“Este livro é dedicado aos meus alunos: àqueles distanciados no tempo, imersos agora em seu próprio destino, que ainda conservam uma recordação de nosso encontro; àqueles que lhe estão próximos, em torno da sua existência material; àqueles que ainda virão, até aqueles que – espero – ainda não nasceram.”

Este artigo, eu dedico àqueles e todos os demais, de 2010, ano em que escrevo, retrospectivamente, em direção ao passado. Se meu primeiro contributo foi revestido do eurocentrismo, este demonstra que, no contato com os estudantes, colegas estrangeiros e amigos imigrantes, aprendemos juntos a nos descolonizarmos. Nada mais próprio, portanto, que, em minha despedida da vida acadêmica, eu faça essa nova dedicatória.



[1]Usamos a tradução italiana de Regina Engelmann do livro Philologie der Weltliteratur/ Filologia della letteratura mondiale, organizado por Enrica Salvaneschi e Silvio Endrighi, com o texto em alemão à frente, Book Editore, Castel Maggiore (Bo) 2006, p. 41. A tradução livre em português é da tradutora do artigo.
[2] Si vedano i lavori in Italia di Sandro Mezzadra, che ha introdotto questa scuola di pensiero in Italia curando il volume di R. Guha e G. Ch. Spivak, Subaltern Studies. Modernità e (post)colonialismo, ombre corte, Verona 2002 e pubblicando poi il suo La condizione postcoloniale, ombre corte, Verona 2008.
[3] É um grande princípio de virtude que a mente se exercite, primeiramente aos poucos, para mudar estes lugares visíveis e transitórios, para então ser capaz de abandoná-los. É débil a pessoa para quem a pátria ainda é doce. É forte aquele para quem qualquer país se torna sua terra natal, mas é perfeito aquele para quem o mundo inteiro é lugar de exílio (Tradução de Shirley Carreira).

[4] Ver a minha abordagem de “Principio Antropico Cosmologico” – John D. Barrow e Frank J. Tipler, The Antropic Cosmological Principle, 1986, tr. it., Il Principio antropico, Adelphi, Milano 2002 – em L’educazione del te, cit.
[5] Ver o meu texto, “Qui êtes vous? ne el reino de este mundo?” em Decolonizzare l’Italia, cit. O título deste ensaio é composto por frase interrogativa – dirigida a nós, europeus, por Aimé Césaire – que se conecta por meio de um ne em italiano com o título de um livro do escritor cubano Alejo Carpentier, de modo que os títulos são evocados em seu idioma original.
[6] Ver o ensaio “Decolonizzare l’Italia” na obra homônima. A este ajunto o que escrevi por ocasião da recepção da medalha de prata pela resistência lingüística, em sua primeria edição, em 25 de abril de 2010, disponível em:
http://vozeshibridas.blogspot.com/2010/07/in-occasione-del-conferimento-della.html



[7] Também colaborei com os Institutos de Literatura Mundial da Academia de Ciências de Budapeste, Bratislava e Skopje. Pode-se encontrar um fruto exemplar dessa colaboração no volume organizado por mim e pelo comparatista eslovaco Dionýz Ďurišin, Il Mediterraneo. Una rete interletteraria, Bulzoni, Roma 2000. Nos anos 80 e 90 do século passado era importante collaborare com os colegas comparatistas da Europa central, dando suporte à pesquisa e difundindo os resultados. Ainda é, para os fins de manutenção de uma circulação virtuosa e justa do saber comum, em um tempo em que é comum, ou, assim se espera, de união européia, mas essa é uma tarefa amarga e difícil para os países periféricos e ex-comunistas.
[8] Dire la verità. Gli intellettuali e il potere, tr. it., Feltrinelli, Milano 1995, Representations of the intellectual, 1994.
[9] Introdution à une poétique du divers, Gallimard, Paris, 1996, pp.16-17

[10] La cultura cannibale. Oswaldo de Andrade: da Pau-Brasil al Manifesto antropofago, organizado por Ettore Finazzi-Agrò e Maria Caterina Pincherle, Roma, Meltemi,1999.
[11] Allison and Busby, London: 1960.
[12] Culture and Imperialism, A. A. Knopf, New York 1993; Cultura e imperialismo. Letteratura e consenso nel progetto coloniale dell’Occidente, tr. it., Roma, Gamberetti, 1998
[13] Op. cit., p. 302.
[14] Orientalism, tr.it., Bollati Boringhieri, Torino 1991, poi Feltrinelli, Milano.
Texto originalmente publicado na Revista e-scrita, v. 2, da UNIABEU.