sexta-feira, 12 de fevereiro de 2010

Centro

Centro
armando gnisci

Università degli Studi di Roma "La Sapienza"


...ita res accendent lumina
rebus
Lucrezio


“Nascere in terra di camorra […] significa avere un vantaggio, portare su di sé un marchio impresso a fuoco che ti orienta a considerare l’esistenza un’arena dove l’imprenditoria, le armi, e persino la propria vita sono solo ed esclusivamente un mezzo per raggiungere denaro e potere: ciò per cui vale la pena di esistere e respirare, ciò che permette di vivere al centro del proprio tempo, senza dover badare ad altro.” Così scrive Roberto Saviano, nel suo romanzo-saggio-reportage Gomorra. Viaggio nell’impero economico e nel sogno di dominio della camorra (p. 294; sottolineatura mia)1.

Stare, anzi, sportarsi al centro del proprio tempo, è forse l’unico modo per poter pensare oggi qualcosa come il centro, senza dover subito chiedere: il centro di che? La misura “ideale” per allocare il centro nella nostra mente che si interroga oggi sul significato delle parole è l’individuo che arriva a sapere di sapere di aver conquistato il centro del proprio sé per proiettarlo sul proprio tempo. Il tempo di ora che mi sento arrivato al centro dove si arriva solo se vuoi il centro, che non sta da nessuna parte se non in questa capsula centrale della propria volontà di potenza diventata potenza di comando, mediante il cumulo consustanziale di denaro e potere che forma e porta la mia immagine al centro. Il camorrista è, a sua volta, il simulacro e lo specchio di ogni conquistatore-governatore che conquisti il suo centro e lo imponga a tutti.

I vari “centrismi” dai quali 2 proveniamo: il terracentrismo, l’eliocentrismo, l’antropocentrismo, l’eurocentrismo il nazionalcentrismo, sono liquefatti sui margini, e scoppiati, alcuni già da tanto tempo, dentro il buco nero del nonsenso: siamo diventati tutti liquidi e periferici, passando per orbite opache e senza fuoco, cometarie a tempo indeterminato, più che planetarie. Voliamo verso altrove, senza meta, orari, e appuntamenti. In questo caos-mondo (Glissant) è diventato centro immaginato la dimensione immateriale del “nostro tempo”; e questo significa il passaggio che ognuno compie nella durata precaria e imprevedibile della propria esistenza. Il nostro tempo non
conosce più la comunità e la mutualità (inter se mortales mutua vivant, scriveva Lucrezio)..

A questa desolazione del centro – una terra dalla quale è andato via da molti giorni il sole ed è rimasta immondizia/Waste – bisogna reagire aprendo “nuovi centri”, dove gli umani vivano delle cose comuni, tra loro e con le altre specie e con le cose che si illuminano a vicenda passando attraverso “la rete infinita delle reciprocità”, come scriveva Sartre nell’Introduzione a I dannati della terra di Frantz Fanon, per arrivare a quel “mondo del Tu”, pensato proprio da Fanon, e non da un prete cristiano o da un filosofo ebreo, nelle ultime righe di Pelle nera, maschere bianche.
Un mondo così non ha centro, è un Tutto-Mondo, come dice Glissant, letterato martinicano come Fanon e Césaire, in cui si può arrivare, attraverso la luce lucreziana, a costruire una semplice e giusta “mente centrale”:

Di questa luce stessa, della mente centrale,
Facciamo un’abitazione nell’aria della sera

Tale che starvi insieme è sufficiente
Out of the same light, out of the central mind
We make a dwelling in the evening air,
In wich being there together is enough.


Scrive il poeta del XX secolo, Wallace Stevens. Una mente centrale somiglia alla relazione comunitaria dell’ubuntu, il concetto tradizionale bantu del centro che si produce dove si sta bene insieme. As you like it.

1 Milano, Mondadori, 2006. Perché cominciare a parlare del centro proprio con questa citazione? vi starete chiedendo. Perché in questa frase e nel libro che la contiene, un giovanissimo scrittore italiano ha sintetizzato, attraverso il racconto dell’orrore di fondo che tormenta la nostra “patria”, così come quello del nostro intero mondo, il senso oscuro della cosiddetta globalizzazione e il senso in chiaro del nostro tempo, il metallo urlante che vibra sotto il pavimento sia della ricchezza che della disgrazia, e il suo svelamento (un po’ come nella cinematografica trilogia epicofantastica di Matrix). E anche il senso inaudito che accomuna chiunque scelga di “dire la verità”, come sosteneva Edward Said, un comparatista palestinese che cerco di assecondare come posso. Questo pezzo di Saviano è per me illuminante per il modo in cui traduce il senso dell’arrivare a vivere come “padrone di sé stessi” – Platone dice così nelle Lettere – dentro il proprio tempo, però; che vuol dire: nella relazione tra sé e il mondo nel quale si è capitati a di vivere; capitati vuol dire: dalla nascita alla morte di chiunque sia (venga e vada) al mondo, tra le due porte misteriose e blindate dell’esistenza. Saviano traducendo il lato oscuro della forza, il rovescio perfetto del platonismo e del buonismo, la delinquenza camorrista campana, definisce in maniera ardita, ma massimamente adeguata, la condizione della coscienza di sé nel mondo umano, troppo umano di oggi. Insomma, la parte che ho corsivata del brano mi risulta icastica e fruttuosa. Essa permette di pronunciare e di riformulare il concetto di “maturità” (la Ripeness di Shakespeare, tanto ansiosamente amata da Pavese) perché possa essere declinato dentro l’oscillazione massima possibile della specie: dal polo del sapiente platonico-santo cristiano a quello del camorrista mondiale del XXI secolo. Meno male che c’è un estremo solamente umano da poter vivere, anche se è il più aspro. Meno bene che il camorrista sia un tratto specifico e aggiornato della “identità” italiana oltre che della sua immagine, o metafora. Una identità criminale che imbratta e impanica le esistenze di tutti e che adombra tutte le altre che bramano centro.

2 Ho composto una rete da gioco di parole e concetti, nella quale pesano The Waste Land/La terra desolata,di T. S. Eliot, il sole (e l’insolazione circadiana) e l’immondizia [Waste]. Spero che sia digeribile. Del resto, unletterato scrive queste cose, che sono concrete allegorie e simulazioni, finzioni e bagattelle, non astratte,però.

quinta-feira, 11 de fevereiro de 2010

Cesaria Évora

O português é a língua oficial de Cabo Verde, utilizada em toda a documentação oficial e administrativa. É também a língua das rádios e televisões e, principalmente, a língua de escolarização.
Paralelamente, nas restantes situações de comunicação (incluindo a fala quotidiana), utiliza-se o cabo-verdiano, um crioulo que mescla o português arcaico a línguas africanas. O crioulo divide-se em dois dialetos com algumas variantes em pronúncias e vocabulários: os das ilhas de Barlavento, ao norte, e os das ilhas de Sotavento, ao sul.

Ouvir Cesaria Évora nos faz pensar no sentido da palavra híbrido.


quarta-feira, 10 de fevereiro de 2010

Letteratura comparata oggi

armando gnisci

Di cosa parliamo quando parliamo di Letteratura comparata
La nostra disciplina oggi
2009-2010



I’d love to learn how things got to be how they are
[Mi piacerebbe imparare come le cose sono arrivate ad essere ciò che sono]
Marilyn Monroe

…ita res accendent lumina rebus
[È per questo che le cose accenderanno luci alle cose]
Lucrezio



Questo testo è stato scritto per tutti i miei allievi, perché ricordino che cosa abbiamo studiato insieme dal 1983 in poi; per i miei studenti dal 2009 fino al 2016 – anno in cui dovrei andare in pensione, se non sarò scomparso prima – affinché sappiano con certezza che cosa stiamo studiando e studieremo ancora insieme; ai miei colleghi, affinché, se vogliono, possano conoscere fin da ora, in breve, che cosa ho studiato in tutti questi anni nei quali non ci siamo incontrati se non nei corridoi o a qualche convegno. Non posso dimenticare tutti i miei, anche se pochi, lettori per caso o da me sconosciuti, o addirittura impensabili. Li saluto, assicurando loro che sono nei miei pensieri. Ho sempre scritto per la gioventù, ossia per i cittadini in formazione. Dopo tanti anni di insegnamento lo so con certezza.
Questo testo è, infine, un esempio di un pezzo di ricambio del sapere della repubblica. Con la parola repubblica intendo esattamente ricordare il significato antico, ma rimosso e rimpianto, di cosa e/è bene comune. Le parole democrazia e politica sono ormai svuotate di senso comune, anzi sono inquinate dalla menzogna e dalla volgarità comuni, nel nostro presente in Italia.


Una disciplina universitaria oggi (21 agosto e seguenti, 2009) non costituisce più e soltanto un sapere scientifico-critico istituzionale e accademico – “accademico” vale a dire, nel migliore dei significati e delle pratiche possibile, quel processo coevolutivo di ricerca e di insegnamento, assieme – che si interessa di un proprio oggetto di conoscenza sempre meglio distinto e descritto a partire da e attraverso i suoi “manuali”.
Che siano i rapporti tra le letterature nazionali, ad esempio, o la linguistica ugro-finnica, il Manierismo nelle arti, o la chirurgia del piede, ad essere studiati, il termine-concetto di disciplina, se lo consideriamo dalla parte di chi la pratica e la aumenta e accresce, significa “settore della conoscenza istituzionale condiviso a livello internazionale”. Una disciplina, inoltre vive nelle società e in quelle cosiddette democratiche dovrebbe garantire la certezza del sapere, così come la magistratura garantisce la certezza del diritto.
Sostengo che, nel corso della sua evoluzione, a partire dal tempo iniziale dell’Accademia platonica e aristotelica, fino agli ultimi decenni del secolo XX e a quelli della prima decade del XXI secolo, una disciplina sia diventata sempre più una regione vasta di incontro mondiale di studiosi e studenti che praticano un sapere più o meno specifico, e un presidio di storia, di libri e strumenti, di teorie e di metodi, di pratiche, di acquisizioni e di aggiornamenti continui e rapidi dentro l’orizzonte di una comunicazione planetaria sempre più fitta e raffinata; e infine, anche e inevitabilmente, una corporazione-consorteria accademica, nella quale però sciamano scuole di pensiero, tendenze e poetiche diverse e diversamente orientate e interconnesse. Esse vanno e vengono in un continuo movimento che consente riconoscimenti e confronti, verifiche e falsifiche. Devo aggiungere, comunque, che questa definizione di transitorietà non rappresenta né sostiene l’esistenza di una vera e propria trasformazione generale e totale di tutte le discipline conosciute e accettate, una specie di rivoluzione globale di tutti i paradigmi delle conoscenze, anche se il Novecento è stato un secolo che ha portato una rivoluzione, ancora non conclusa, in tutti i campi epistemici, scientifici e tecnologici. Voglio dire, più semplicemente, che il nostro approccio a un panorama generale del sapere comprende discipline nuove, discipline morte e moribonde, discipline ferme e discipline che marciano secondo una apertura e una spinta dinamica, critica e progressiva.
Se accettiamo volentieri questa sintesi, essa non solo va riconosciuta come semplice e succinta sistemazione dell’esistente, ma, al tempo stesso, va intesa e praticata in senso implementare e migliorativo, come valore augusto [valore che aumenta valore] di una complessità variegata e condivisa come tale in tutto il mondo e in tutti i settori della conoscenza.
Bisogna, cioè, accettare questa prospettiva valorizzante, transdisciplinare e planetaria, nella sua identità critica e comunitaria, nella sua responsabilità etica e politica e nella sua importanza distintiva rispetto alle altre discipline vicine e imparentate. Dopo la bomba atomica del 1945 e gli altri orrori del Novecento e dei tempi attuali, questo è il passaporto minimo richiesto agli operatori della scienza, e cioè del sapere di sapere che presiede le varie discipline umanistiche e non, ma che è anche raramente fornito e mostrato.

A questo punto, avviciniamoci e attardiamoci un po’ nei vasti dintorni delle discipline letterarie, e della Letteratura comparata, in particolare. La dicitura che segna questa nostra disciplina, che gli studiosi francesi della prima metà del Novecento intestavano come Littérature générale et comparée, sta a indicare, tuttora, uno studio in prospettiva mondiale e generale della letteratura.
Che cosa intendiamo dire quando parliamo di Letteratura generale e comparata in prospettiva mondiale, allora? Oggi, questa dicitura più lunga, ma da tenere a mente necessariamente, intende enfatizzare lo studio innanzitutto e costituzionalmente – nonché criticamente, sempre – della letteratura in una dimensione mondialistica, storica e transdisciplinare. Per noialtri italiani – e così rispettivamente per ogni continente di civiltà (civiltà, al plurale) che si riconoscano anche in una dimensione continentale – questo significa che la nostra identità letteraria nazionale va pensata immediatamente, da una parte, dentro la comunità letteraria europea e, dall’altra, mediante la comune lingua-storia-geografia che ci unisce e ci permette di leggere pensare parlare e comunicare, in quanto italiani.

In questi ultimi anni, gli italiani sono stati portati e invitati più volte a interrogarsi, se non a riconoscersi, in una possibile complementarità della propria, sempre plurale e mobile, identità in una figura sudeuropea-mediterranea. Sono stati a far questo, credo soprattutto – oltre i discorsi intellettuali come quello della “teoria meridiana” di Franco Cassano, della mia poetica della creolizzazione e della poetica transnazionale della mediterraneità napoletana di Iain Chambers, e quelli di tanti altri scrittori – i destini delle avventure dei migranti albanesi e kurdi, prima e poi africani, del nordAfrica mediterraneo e figli di ex colonizzati da Mussolini e Graziani provenienti dal Corno d’Africa (eritrei, etiopi e somali) approdati presso di noi, respinti dai poliziotti della nostra patria ridotta a una fortezza leghista nordista e razzista, o morti, tanti, e sepolti nel cimitero marino del canale di Otranto, e in quello della Sicilia, tra Malta e Lampedusa. Destini guardati con gli occhi sempre più indifferenti e incarogniti degli italiani “legati”. Una testimonianza esemplare di questa triste vicenda è offerta dal servizio del direttore de “la Repubblica”, Ezio Mauro, del 26 agosto 2009, dal titolo “Un anno, 4 mesi e 21 giorni viaggio dalla morte all’Italia”, che inizia in prima pagina e continua in seconda e terza. Mauro ha trascritto in maniera egregia i racconti di due cittadini eritrei dei cinque che si sono salvati in Sicilia da un barcone che ha attraversato il Canale mediterraneo tra la Libia, Malta e l’Italia, lasciando in mare 73 cadaveri.


La dicitura burocratica ed ufficiale usata per legge in Italia al fine di designare la nostra disciplina – ma non giustificata, né in sede legiferante e burocratico-ministeriale, né criticamente dagli accademici preclari coinvolti, anche se accettata implicitamente da tutti, ma non da me – è quella, bizzarra, di “Letterature comparate”, al plurale. Essa andrebbe bene se vivessimo in un mondo in cui esistessero solo e innanzitutto letterature nazionali più o meno ben distinte in corpi rigidi e blindati – cadaveri, autrement dit [è francese, e vuol dire “detto altrimenti”] – con molte servette che stanno loro d’intorno, tra le quali ce ne è una che li spolvera divertendosi a compararli. Viviamo, invece, anche se in Italia, in un mondo complesso e totale – in un Tout-Monde, come scrive il poeta martinicano Édouard Glissant – che somiglia alla così detta “letteratura mondiale”, che è quella concretamente letta e percepita da tutti noi soprattutto in traduzione e più o meno simultaneamente sul pianeta, e alla Letteratura generale e comparata, che è la disciplina che la studia e la insegna. E la letteratura mondiale e la letteratura comparata somigliano al mondo, perché lo traducono, presso ognuno di noi e presso una comunità planetaria di tutti-insieme.
Sto usando un ragionamento che tratta dal fondo i fatti della storia, tanto da farmi sostenere che la nostra disciplina, fin dalla sua nascita franco-tedesca tardo-settecentesca, possa riconoscersi nella sua successiva intestazione germanica che ha una valenza e una legittimità mondiale di “Scienza generale e comparata della letteratura”: Vergleichende Literaturwissenschaft. Non si tratta di proclamarsi “madre” della conoscenza letteraria, ma di praticare l’idea di una vera e propria “Repubblica mondiale delle Lettere” (dove “Repubblica” vuol dire “cosa comune a tutti”). Aggiungo che nelle altre lingue europee occidentali – imposte, tra l’altro, e diffuse in tutti i continenti attraverso il colonialismo e il modernismo – la nostra disciplina si è declinata sempre al singolare, come già sappiamo per il francese e per il tedesco, e poi: Comparative Literature, Literatura comparada. Potremmo affermare che sia nel grande continente verticale del Nuovo Mondo che dovunque e altrove su questo pianeta nessuno pronunci l’esistenza di un sapere che porti il nome di Letterature comparate al plurale; e forse, in questa sfortunata singolarità, noialtri italiani siamo unici al mondo; tanto quanto unici siamo nel dare del lei, la terza persona dei pronomi personali al femminile, invece che del tu-voi, a chiunque ci si presenti. Anche a un orco.

Questo pensiero derivante da uno straniamento linguistico che rende noialtri comparatisti molto affini con gli autori-poeti della letteratura, è la fonte di composizione del mio L’educazione del te, Roma, Sinnos 2009. Per quanto riguarda gli orchi, una stirpe malvagia che è scesa in Italia nel 1994 e da allora ne ha addirittura preso il governo e appestato la mente di una grande maggioranza di abitanti, ho lanciato da molti anni il mio augurio: “In bocca all’orco!” – invece di “In bocca al lupo!”, ovviamente. A tale augurio di buona fortuna, si risponde “Crepi l’orco evviva il lupo!”.


Proviamo, a questo punto, a cercare di definire e a intendere quali siano oggi i rapporti tra la Letteratura Comparata [da ora in poi, LC] e gli Studi Postcoloniali [da ora in poi, SP].
Perché mai e perché proprio questi rapporti? chiederete. Perché stiamo parlando della Letteratura comparata oggi, alla fine dell’estate del 2009 e la questione della distinzione dialettica tra LC e SP che vi propongo di trattare, anche se velocemente, serve a illustrare e a discutere proprio quanto di importante e di attuale succeda letterariamente oggi nel mondo, e della dinamica turbo di certe discipline e di cosa andiamo studiando e discutendo quando parliamo di Letteratura come studium [passione e applicazione, al contempo; i greci per “applicazione” dicevano áskesis].
Parto dall’ipotesi di lavoro – nel corso della quale scorre la mia poetica – che LC sia una disciplina che da tempo vada evolvendo attraverso le condizioni di esistenza, di legittimità e di operatività ad apertura dinamica e critica che ho sopra enunciate. E che gli SP siano la più famosa e aggiornata tra le ultime scuole-mode di ricerca culturale internazionali, e allo stesso tempo una poetica nuova mondiale di quelle che entrano e che escono dalla area disciplinare di LC, attraversandola tanto spesso da finire con l’abitarla in modo abbastanza abituale. Gli SP, infatti, sono studi che prolificano da alcuni anni in tutte le università del mondo usando, nella maggior parte dei casi, dei cliché anglisti di una ricerca, ormai molto sicura di sé e già ripetitiva, che si avvale degli Studi Culturali e di quelli Interculturali, degli Studi Postcoloniali in senso stretto, degli Studi Femminili in quantità essenziale e dei Translation Studies (in italiano, Studi di Traduttologia, pesante-parola-container).
Con questo fardello e con questo armamento gli SP intendono porsi, e vanno ponendosi sempre di più, in una postazione egemonica e antropofagica, minacciando di ingoiare la LC, dichiarandola più o meno apertamente passatista, superata ed eurocentrica.
Bisogna ricordare anche il fatto che tutti i giovani ricercatori italiani-anglisti nel mondo, se non fanno ricerca nel campo medico o in quello scientifico e tecnologico, sembra che lavorino preferibilmente nel settore dei PS, in Inghilterra, negli USA, in Australia, in Canada ecc.
Esponente esemplare e addirittura portatrice della soluzione finale di questa offensiva egemonica è la teoria d’assalto che proclama la “morte di una disciplina (la letteratura comparata, appunto)” lanciata qualche anno addietro dalla studiosa indo-statunitense Gayatri Chakravorty Spivak .
Se si segue il mio punto di vista e di ragionamento, Spivak sembra che non faccia morire niente, perché la LC estinta non corrisponde alla sua descrizione: quella di una disciplina accademica eurocentrica, moribonda o malata terminale, ma, al contrario, essa si afferma sempre di più come una disciplina che si trasforma in maniera esemplare, riconoscendo criticamente e produttivamente il proprio cammino mentre lo fa. Aggiungo, da Roma: perfino dove e quando si trovi in condizioni accademiche subalterne e arretrate come in Italia .
Perché? Perché LC indica che il proprio cammino disciplinare si ispira a una emancipazione epistemica, critica e storica che trasforma costantemente in filosofia metodica e in un surplus di valore che si aggiunge alla progressività normale della conoscenza scientifica.
Insomma, mentre da molto tempo l’astrologia è diventata una chiacchiera riconosciuta, più o meno da tutti, e mentre le discipline che prendono titolo dai manuali (storici) delle letterature nazionali diventano sempre di più dei nosocomi, la Letteratura comparata si è trasformata nella rete mondiale di un sapere aperto e vigile, nella quale escono e entrano vecchi bacucchi allievi di allievi di Arturo Graf (ce ne sono ancora?), o di Horst Rüdiger, piccoli teorici allupati, più o meno giovani studiose postcolonialiste anglofone di Varsavia e di Kuala Lampur, studiose di traduttologia australiane e texane, semiologi del gossip e dei disastri e altri ancora, e tanti altri molto molto positivi .
Starete certamente pensando: questo prof tira troppo l’acqua al suo mulino, come sempre e come tutti, del resto. Tutte le discipline si attrezzano, si difendono e si propagandano più o meno in questo modo. E allora? Non si vede perché la LC dovrebbe avere prerogative speciali, uniche addirittura. E poi, Spivak che cosa dice esattamente nel suo libro e che effetto ha avuto nel mondo il suo testo? E perché dovrebbe avere ragione gnisci e non Spivak?
Bene, bene [mi sto fregando le mani, anche se fa molto caldo, si suda e le zanzare-tigri fanno raid micidiali sul mio corpo]. Risponderò solamente alle due ultime domande (perché sono le due domande che mi avete fatto).
L’effetto del libro di Spivak – lungi dal procurare la morte ad alcuna disciplina – è stato quello per cui le postcolonialiste-angliste del mondo sbavano per poterla avere nel proprio Dipartimento a fare una conferenza, e per cui tutte parlano di lei in tutti i convegni e tutte la citano nei loro paper scritti [i paper sono i testi delle relazioni a un convegno che poi diventano testi stampati nei libri o altrove].
Perché dovrei aver ragione io? Provo a dirlo, anzi a ripeterlo con qualche dato e qualche delucidazione in più: la LC dal secondo dopoguerra mondiale ad oggi, come tante discipline che avevano avuto successo negli USA anche per il lavoro di illustri professori fuggiti o emigrati dall’Europa – da Auerbach a Poggioli, da Jakobson a Wellek a H.H.H. Remak e a tanti altri; poi sono arrivati in USA studiosi da tutto il mondo: cinesi, vietnamiti, caraibici, sudamericani, arabi, indiani, africani, come Bhabha e Spivak, Glissant, Ngugi wa Thiong’o, Edward Said, Walter Mignolo, Peter Carravetta ecc. – si è trasferita e diffusa in tutto il mondo. Nel 1997 fui invitato in Cina ad aprire il Congresso dei comparatisti cinesi con una relazione plenaria su globalizzazione e letteratura mondiale (non su Boccaccio o D’Annunzio… Gli studiosi cinesi nel 97 erano già più di 900). Sostengo, poi, che la LC sia, senza timore alcuno di esagerare, la disciplina più mondialista nel campo letterario, e anche la meglio decolonizzata rispetto all’eurocentrismo, insieme all’antropologia culturale.
Direi che è troppo difficile controbattere a questo argomento, descrittivo di una situazione reale e ben conosciuta nel mondo accademico letterario planetario e dello, come dire?, spirito dei tempi nostri.
LC ha iniziato dal secondo dopoguerra a superare criticamente il proprio eurocentrismo, innanzitutto riconoscendolo e decostruendolo attraverso un dibattito transculturale e intercontinentale, prima degli studiosi europei con quelli statunitensi e canadesi, e poi mondiale, con cinesi e giapponesi, africani e americani centrali e meridionali, indiani e arabi. Il nostro dibattito non si è svolto e non si svolge soltanto su questioni settoriali e specifiche (la mela e la cipolla nelle opere di Petrarca e Rabelais, o in quelle di Petrarca e di Neruda ecc.) ma su tutte le questioni letterarie messe in questione da parte di tutti. Il dibattito non era e non è tra filologi e letterati, ma tra di essi e i linguisti, i filosofi e gli antropologi, gli storici e altri ancora.
Personalmente, sono orgoglioso di aver partecipato a questa avventura a partire dagli inizi degli anni 80 e di contribuire ad agitarne ancora fruttuosamente le acque, anche se vivo in esilio in Italia .
Ancora, la LC ha introdotto dentro i propri studi e nella propria agenda disciplinare un motore interculturale, dopo una prima vita eurocentrica, come ha mostrato Franca Sinopoli nel suo saggio introduttivo del 1997 al Manuale storico di letteratura comparata.
Va enfatizzato il fatto che la LC abbia deciso di creare una agenda mondiale e democratica del proprio cammino e del proprio destino e che in questa agenda abbia messo, fin dal Rapporto Bernheimer del 1993, la questione della sua identità disciplinare in una società multiculturale . Da allora si può constatare come la situazione della disciplina sia evoluta in questa direzione leggendo dopo il libro di Spivak quello del giovane comparatista nordamericano di Yale, Haun Saussy, (editor) Comparative Literature in an Age of Globalization, del 2006 .
La LC ha innescato criticamente una revisione e una verifica continua dei suoi poteri nel momento in cui ha deciso di pensarsi e di volersi quale una disciplina tipicamente mondiale nella consistenza e nella pratica, e mondialista nella proposta dei propri valori. Nello stesso tempo, ha costantemente messo in crisi le altre discipline dello studio letterario (la stilistica, la storia della critica letteraria, la teoria della letteratura, la sociologia della letteratura, le storie delle letterature e le filologie delle letterature nazionali e transnazionali – come, ad esempio, la filologia romanza o quella germanica) tenendo sotto inchiesta le loro pretese e i loro poteri, o i loro privilegi e i loro sonnellini.

N. B.: Disciplina mondialista non equivale a disciplina cosmopolita o a disciplina nomade, etichette molto di moda al giorno d’oggi. Ma su queste quisquiglie ci intratterremo un’altra volta.
Ho letto pochi giorni fa una lunga intervista a un giovane e formidabile direttore d’orchestra venezolano, una star già mondiale a meno di trentanni; sosteneva che lui e tutti i musicisti dei Caraibi e dell’America latina suonano Beethoven e gli altri grandi maestri europei non come opere-monumenti, ma con lo spirito di chi sta interpretando una musica scritta la settimana prima. Lo stesso mi pare che capiti talvolta, ma in senso opposto, quando i direttori d’orchestra europei e nordamericani interpretano l’opera di musicisti popolari come Astor Piazzola nei grandi concerti “classici”. Penso a Daniel Barenboim e a pochi altri, ma avevo dimenticato per un attimo che Barenboim è argentino.

La storia dice che l’attitudine all’autocritica mondiale solerte e fruttuosa ha portato la LC a promuovere ed accogliere nei suoi Dipartimenti statunitensi, canadesi e inglesi, soprattutto, gli SP, dando una cattedra a Spivak e a tanti altri studiosi stranieri e a diversi antropologi. Come sempre, invece, l’Italia è ultima anche in questo settore; le sue giovani ricercatrici e ricercatori di LC devono per forza cercare asilo nei paesi anglofoni, e non solo in quelli.
Infine, sostengo che il profilo storico-evolutivo di LC mostri e rappresenti il migliore esempio di un rapporto giusto tra una disciplina letteraria e il proprio tempo, una relazione che trova il suo impeto verso il presente e vivo e verso il futuro, e non solo verso l’antico, per celebrare Sofocle e Li Po, Cervantes e Bashō. Che, comunque, vengono celebrati e ravvivati costantemente e con gioia, oserei dire.

Lavorare per il presente e vivo – che è un calco al maschile di un’immagine dall’“Infinito” di Leopardi – e per il futuro è quanto ho fatto come comparatista. Nel 1984 esordii con un manuale antologico su La letteratura del mondo, Roma, Carucci. E nel 2010 pubblicherò con Nora Moll e Franca Sinopoli un nuovo manuale introduttivo all’attuale dibattito planetario sul concetto di Letteratura mondiale. Nel 1984 quel libro antologizzava i testi da Goethe al secondo Novecento. Ancora, nel 1991 scrissi e nel 1992 pubblicai Il rovescio del gioco, Roma, Carucci, che scopriva e analizzava il fenomeno inaudito degli scrittori migranti (dall’Africa) che scrivevano e pubblicavano in Italia. Ho lavorato sul presente per il futuro, così anche quando, rispondendo al desiderio di molti allievi, nel 1990 scrissi un libretto di Appunti per un avviamento allo studio della Letteratura generale e comparata. Loro stessi – Silvia Morganti, Franca Sinopoli e Antonio Cammarota – ne curarono la redazione trascrivendo la registrazione delle lezioni del mio corso dell’anno accademico 1988-1989, fino alla edizione, Roma, Carucci 1991. Cammarota scrisse, inoltre, un pregevole saggio bibliografico collocato alla fine del breve volume. Allora, sono sicuro, non immaginai che sarei diventato uno scrittore accademico “manualista”, piacendomi la reputazione (un po’ artistica) di saggista. Alcuni anni dopo, nel 1997, con Franca Sinopoli preparai il Manuale storico di letteratura comparata presso l’editore Meltemi e nel 1999, con un magnifico gruppo di allievi, confezionai il manuale disciplinare di Introduzione alla letteratura comparata, che poi divenne Letteratura comparata alla seconda edizione ampliata del 2002, presso Bruno Mondadori (tradotto in spagnolo e in macedone, attualmente in traduzione in arabo a Il Cairo).

Prima di chiudere questo discorso di apertura di un anno accademico, farò cenno alla visione mondialistica della nostra disciplina, alla quale ho fatto riferimento più volte in questo discorso come al suo carattere precipuo.
Mi servirò di uno schema molto semplice, con due tratti paradigmatici. Il primo è dato dal NEM. La sigla acronima significa: Nazione-Europa-Mondo, una sequenza apparentemente logica e naturale, ma insidiosamente stereotipata e ideologica. Facciamo luce su questa diagnosi: a Nazione sostituite la nazione di ognuno di voi; la maggioranza darà sicuramente il riconoscimento di: Italia. Che la letteratura vada studiata innanzitutto e doverosamente come la propria letteratura nazionale, dalla scuola media inferiore a quella superiore fino all’università e oltre è un dato di fatto della storia delle nazioni europee e in particolare della nostra. Ma se ci pensate un po’ e in maniera straniante, però, vi accorgerete che nessun italiano legge libri di letteratura seguendo la storia letteraria italiana e i suoi secoli e periodi: da san Francesco a Dante e poi Petrarca ecc. Se così fosse alcuni di noi a novantanni starebbero dalle parti di Parini e non arriverebbero mai a leggere le Cosmicomiche di Italo Calvino o le poesie di Montale e di Caproni. Tutti noi veniamo al mondo della letteratura cominciando a leggere le favole dei Grimm e quelle italiane raccolte da Calvino, Andersen e Gaarder, il mago di Oz e Piccole donne, i libri di Scarry e il leggero e misterioso piccolo principe e poi qualcuno ci regalerà Lovecraft (io lo regalo) e Asimov, il giovane Holden e i tre moschettieri; e poi scoprirete Kafka e Flaubert, Virginia Woolf e Jane Austen, Dickens, Tolstoj e tutti, tutti gli altri, fino a Saviano e a Banana Yoshimoto. È questa la vostra vera e propria “storia letteraria”, di ognuno di voi, di noi, lettori forti, che a novantanni si nutrono di Ingerborg Bachmann e di Thomas Bernhard, di Cormack McCarthy, di Szymborska, di Pennac, di Calvino (ancora lui? Sì! Perché?).
E allora? Come stanno le cose? E l’Europa che c’azzecca? Direi poco, è una parola per attrarre i gonzi, è molto opaca. E Mondo? Niente. Nel mondo ci stiamo già. Si vabbe’, ma come? In che senso? Che significa?...che facciamo?
Ragazzi, basta cambiare sigla e paradigma e l’opaco sparisce. Usiamo adesso il secondo tratto: MEN, invece di NEM. Non si tratta di un dopobarba. È l’acronimo inverso: Mondo-Europa-Nazione(Italia). È l’acronimo praticato e promosso – sì, promosso!, perché? avete dubbi? perplessità ecc.? – dalla LC.
Il Mondo è la nostra patria: lo dice Dante Alighieri nel De vulgari eloquentia (I, VI,3)
NOS AUTEM, CUI MUNDUS EST PATRIA VELUT PISCIBUS EQUOR
[Traducete da soli, o cercate la traduzione]
Non infierisco oltre.
Europea è la nostra mente.
Italiana è la nostra lingua-storia.
MEN ci serve per pensare e studiare fuori dall’opaco, nella luce che le cose mandano alle cose, come dice Lucrezio. MEN ci induce a pensare in maniera mondialista da europei di lingua italiana.
Il MEN è una proposta della LC.

Ricordo che LC nel nostro caso, si trova dentro la Facoltà di Lettere e Filosofia dell’università della Sapienza di Roma, dove è trattata come una disciplina, diciamo così, collaterale della Italianistica e lavora dentro un Dipartimento di Italianistica e Spettacolo; didatticamente opera all’interno di un corso di laurea triennale di “Letteratura Musica Spettacolo” e di un corso di laurea magistrale, o specialistica, di “Letteratura e Lingua. Studi italiani ed europei”. Essa è presente anche nel patrimonio di discipline del Dottorato di Italianistica.
Avviso gli studenti che non ci si laurea in LC se non si va all’estero. Per questo abbiamo attivato in questi anni diversi accordi di scambio europei ed extra-europei:
Accordi internazionali della cattedra di Letteratura Comparata, che interessano gli studenti e i dottorandi:
Erasmus, Coimbra, Paris3, Coventry-Warwick, Nitra (Slovacchia), Castilla-La Mancha, Santiago de Compostela, Colonia, Losanna
Altri: Helwan-Il Cairo
Appunto paralipomeno

Le due citazioni che stanno lontano da qui ormai, sotto il titolo e prima dell’inizio di questo testo si chiamano, nel linguaggio colto dei letterati laureati, exerga o epigrafi [insegnatelo anche al vostro pc], termini antichi, greco-latini, che significano “fuori del testo” o anche frasi lapidarie, motti ecc.; l’inizio di un testo, ancora nel liguaggio letterario e retorico, si chiama incipit.
Forse di fronte a loro e prima di cominciare a leggere il testo, siete rimasti un po’ disarmati o perplessi, o infastiditi o basiti, o tristemente impressionati o indifferenti come nello zen da seduti o soddisfatti perché vi è sembrato di aver capito finalmente che cosa è e come si manifesta un pensiero (o una facezia) postmoderna, o ecc., trovandoli lì inattesi e in una coniugazione imprevedibile e bizzarra, Monroe prima di Lucrezio. E forse, srotolando la vostra lettura lungo il cursus – cercate di tradurre voi questo termine erudito, che a me piace molto – del testo, avrete capito da soli, si fa per dire, di certo assieme, perché ho messo Marilyn Monroe insieme con noi e vicina al grande poeta latino, ma prima di lui. [In verità ho anche manomesso un po’ la traduzione dei versi dal De rerum natura del mio amatissimo Tito Lucrezio Caro. Ita, infatti, è tradotto da tutti, sempre e giustamente con “Così”, anche da me, ma in questo caso ho interpretato ad hoc l’avverbio modale antico con una espressione più lunga e accomodata, che però l’Ita latino sopporta perfettamente e amabilmente. Amabilità sorprendente sempre dei “classici”!].
I loro – di Marilyn e di Lucrezio – due motti formano un modello – direi critico e sentimentale – di come si possa costruire e mettere insieme un pensiero partecipe e mutuo, femminile-maschile, moderno-antico, vecchio-nuovomondo, desiderio di conoscenza e educazione della conoscenza, esigenza-corrisposta. Ciò che Marilyn desiderava era di conoscere il farsi e il diventare delle cose quelle che sono di fronte alla premura della conoscenza di chiunque e ognuno, e Lucrezio mostra – come Kant poi farà modernamente nella famosa clausola finale della Critica della Ragion Pratica [KPV, in tedesco] – che le cose manderanno e mandano incessantemente luce alle cose e che l’occhio di mezzo che vede la luce tra di noi e ne parla, e la indaga e la traduce e spiega a tutti, fa avanzare e diffondere così il sapere, mettendosi in mezzo. E insieme.
Il filosofo epicureo siriano-palestinese Filodemo di Gadara, vivente e operante a Ercolano nello stesso periodo di vita di Lucrezio, nel I secolo avanti l’Era Volgare, ha scritto che “dobbiamo salvarci l’un l’altro”, prima che il palestinese Gesù – Nazareth è attualmente in Israele – predicasse che la salvezza era possibile solo attraverso di lui. E che la Chiesa cattolica si impadronisse del pacco intero .

Ripeto: Questo libello è stato scritto per tutti i miei allievi, perché ricordino che cosa abbiamo studiato insieme dal 1983 in poi; per i miei studenti dal 2009 fino al 2016, anno in cui dovrei andare in pensione, se non sarò scomparso prima, affinché sappiano con certezza che cosa stiamo studiando e studieremo ancora insieme; ai miei colleghi, affinché, se vogliono, possano conoscere fin da ora, in breve, che cosa ho studiato in tutti questi anni nei quali non ci siamo incontrati se non nei corridoi o a qualche convegno. Non posso dimenticare tutti i miei, anche se pochi, lettori per caso o da me sconosciuti, o addirittura impensabili. Li saluto, assicurando loro che sono nei miei pensieri. Ho sempre scritto per la gioventù, ossia per i cittadini in formazione. Dopo tanti anni di insegnamento lo so con certezza.
Questo testo è, infine, un esempio di un pezzo di ricambio di sapere della repubblica. Con la parola repubblica intendo esattamente ricordare il significato antico, ma dimenticato, di cosa e/è bene comune. Le parole democrazia e politica sono ormai svuotate di senso, anzi sono inquinate dalla menzogna e dalla volgarità comuni, nel nostro tempo in Italia.

Bibliografia

Iain Chambers, Mediterranean Crossing. The Politics of an Interrupted Modernity, 2007; Le molte voci del Mediterraneo, tr.it. di Sara Marinelli, Milano, Raffaello Cortina 2007
Dýoniz Ďurišin e a. gnisci (a cura di), Il Mediterraneo una rete interletteraria, Roma, Bulzoni 2000
Édouard Glissant, Tout-monde, Paris, Gallimard 1993; Tutto-Mondo, a cura di Marie-José Hoyet, tr.it. di Geraldina Colotti e M.-J. Hoyet, Roma, Edizioni Lavoro, 2009
Éd. Glissant, Introduction à une poétique du divers, Paris, Gallimard 1996; Poetica del diverso, tr.it. di Francesca Neri, Roma, Meltemi 1998
armando gnisci e Franca Sinopoli, Manuale storico di letteratura comparata, Roma, Meltemi 1997
a. gnisci (a cura di), Letteratura comparata, Milano, Bruno Mondadori, 2002 (1ª edizione, 1999)
a. gnisci, “What we Europeans talk about when we talk about Postcolonialism”, in Jadavpur Journal of Comparative Literature, n. 44, 2007, pp. 7-20, Department of Comparative Literature Jadavpur University Calcutta (N.B.: la fotocopia di questo articolo è disponibile per gli studenti e per i colleghi interessati, basta chiedermela, non per email, però)
a. gnisci, Decolonizzare l’Italia, Roma, Bulzoni 2007
a. gnisci, L’educazione del te, Roma, Sinnos 2009
a. gnisci, Nora Moll, Franca Sinopoli, Introduzione allo studio della Letteratura mondiale, Milano, Bruno Mondadori 2010
Nora Moll, Ulisse tra due mari, Isernia, Cosmo Iannone 2006
Nicoletta Pireddu, “Between the Local and the Global: Comparative Literature in the Land of Dante”, in Recherche Littéraire/Literary Research, vol. 25 – Summer 2009, pp.26-33 (N.B. la fotocopia di questo articolo è disponibile per gli studenti e i colleghi che fossero interessati, basta chiedermela; non per email, però)
Haun Saussy, ed., Comparative Literature in an Age of Globalization, Baltimore, J. Hopkins UP, 2006
F. Sinopoli, (a cura di), Il mito della letteratura europea, Roma, Meltemi 1999
F. Sinopoli, (a cura di), La letteratura europea vista dagli altri, Roma, Meltemi 2003
F. Sinopoli, La dimensione europea nello studio letterario, Milano, Bruno Mondadori 2009












Uma língua para todos

Seminario Creolo

Vídeo do primeiro encontro do Seminario Creolo, realizado na Università degli Studi di Roma, por iniciativa e organização do Prof. Dr. Armando Gnisci.


http://www.uniroma.tv/?id_video=14577

segunda-feira, 8 de fevereiro de 2010

A representação do outro em tempos de pós-colonialismo

A representação do outro em tempos de pós-colonialismo: uma poética de descolonização literária

Shirley de Souza Gomes Carreira


Recentemente, ao ler um artigo do Prof. Dr. Armando Gnisci , da Universidade de Roma, intitulado “A descolonização que não passa”[1], pus-me a refletir sobre o real sentido do termo “pós-colonial”, bem como sobre as críticas ferrenhas que lhe têm sido feitas contemporaneamente.
Em primeiro lugar, creio ser necessário mencionar a origem do termo e o modo pelo qual atingiu um tal destaque, a ponto de tornar-se uma vertente de estudos acadêmicos. O prefixo “pós” não nos deixa dúvida alguma acerca do conceito em si. “Pós-colonialismo” pressupõe, com certeza, “o que ocorreu, ou ocorre, após o colonialismo”. O problema, na realidade, está na origem dessa idéia de posteridade.
Academicamente, o termo “pós-colonialismo” se reporta a uma série de estudos centrados nos efeitos da colonização sobre as culturas e sociedades colonizadas, que podem ser interpretados como parte da teoria pós-modernista, que busca trazer à baila as vozes das culturas e dos segmentos sociais periféricos. Essa busca de “descentramento”, segundo os teóricos do pós-modernismo, é uma tentativa de “ouvir” as “margens”, incluindo-se aí, todas as minorias raciais, as mulheres e os homossexuais.
Os estudos culturais, fundamentados nas idéias de globalização, democratização e contextualização, passaram a ocupar nos anos 80 e 90, na esfera acadêmica internacional, mas, sobretudo, nos Estados Unidos, o espaço das discussões teóricas, traçando as diretrizes dos estudos literários e humanísticos, que foram acatadas por muitos como um campo profícuo de investigação, muito embora tenham sido, igualmente, rejeitadas por outros tantos.
Os assim chamados “estudos pós-coloniais” focalizam, portanto, as manifestações culturais, entre elas a expressão literária, das nações que conquistaram sua independência após um longo período de dominação política e cultural.
A nossa proposta é questionar o conceito a partir do rótulo que ele cria. Admitir um estado pós-colonial é, conseqüentemente, pressupor que o colonialismo teve um fim. Se examinarmos detalhadamente a história recente dos países que sofreram o processo de colonização, com certeza chegaremos à conclusão de que, em muitos deles, a colonização ainda não terminou. Pelo contrário, ela continua e não só nesses países, mas persiste também na proposta de globalização, cuja forma de domínio se esconde sob a idéia de uma aparente igualdade.
Escritores e críticos de projeção internacional têm sumariamente rejeitado a adoção do prefixo “pós”, por interpretarem-no como uma perpetuação de uma visão segregacionista, que cria, com o rótulo, uma espécie de gueto cultural, onde ficaria alocada a produção crítica e literária oriunda dessas culturas.
Ainda que não queiramos admitir, vivemos e sobrevivemos sob o domínio de um imperialismo detectável na orientação política internacional e na própria formação do cânone literário.
Salman Rushdie, em sua coletânea de ensaios Imaginary Homelands
[2], rejeita veementemente o rótulo de “literatura pós-colonial”, por ver nele uma forma de raciocínio que não abandona os conceitos de “centro” e “periferia”. A oposição entre o conceito de “identidade” e “alteridade” está no âmago da relação entre colonizador e colonizado, na interpretação dos critérios de igualdade e diferença.
Sendo um dos muitos escritores migrantes do nosso século, Rushdie reivindica o direito de não ser excluído de nenhuma parte de sua herança, isto é, ele quer ter o direito de ser tratado como um membro da sociedade britânica, porém sem ter de abdicar do direito de debruçar-se sobre as suas raízes, a India de sua juventude, como qualquer membro da comunidade pós-diáspora a que pertence.
Para ele, ser imigrante e, principalmente, escritor implica a consciência de que o indivíduo migrante é dono de uma subjetividade que é, ao mesmo tempo, plural e parcial.
Se a distância física de sua terra natal o faz construir uma pátria imaginária, ou melhor, uma Índia invisível, fruto de sua memória e da nostalgia de expatriado, a consciência da perda da pátria real permite o desenvolvimento de uma distância crítica.
A representação do “outro”, em tempos de pós-colonialismo, conforme este tem sido concebido e interpretado, promoverá sempre um processo de exclusão, uma vez que o “eu” ao qual todos os outros se opõem é exatamente o ex-colonizador.
O que Rushdie, assim como o Prof. Gnisci, propõe, de fato, é que haja uma desconstrução da antinomia eu/outro, uma vez que não se pode empregar um rótulo comum para expressar aspectos culturais tão diversos quanto, por exemplo, os da Índia, dos países latino-americanos e dos países africanos.
A situação específica do escritor migrante faz da criação literária um exercício social e político por meio do qual ele busca encontrar novos ângulos de aproximação da realidade.
Um dos fatores a serem levados em consideração é a questão da apropriação do idioma da pátria de adoção.
No caso da Inglaterra, particularmente, a grande onda migratória ocorreu nas décadas de 50 e 60 e, independentemente do seu país de origem— seja ele a Índia, o Paquistão, ou mesmo o Kuwait— todos os imigrantes do Oriente Médio recebem o rótulo de indianos.
Conforme Rushdie faz questão de enfatizar, o rótulo de escritor indiano é tão amplo que abriga exilados políticos, imigrantes da primeira onda migratória, expatriados com residência temporária, indivíduos naturalizados e, até mesmo, os descendentes de imigrantes, que jamais puseram os pés fora da Grã-Bretanha.
Todos eles escrevem em inglês, o idioma do país que os acolheu, mas o fazem de um tal modo que seus textos refletem não só a luta real contra o estigma do “outro”, como a luta interior entre duas culturas.
Adotar o idioma do colonizador não significa aceitar o papel de colonizado, uma vez que, ao reinterpretar a cultura de seu país de origem nesse idioma, o escritor migrante inicia um processo de tradução cultural. Rushdie se autodenomina um “homem traduzido”.
Armando Gnisci (1999) insiste em afirmar que o processo de descolonização passa pela desconstrução dos modelos de dominação que têm orientado não só os estudos culturais como também uma boa parte dos estudos literários contemporâneos. Baseado nessa afirmação, ele opõe o conceito de “Literatura Global”, que é orientada pelo mercado e pela indústria de cultura de massa, ao conceito de “Literatura dos Mundos”, uma literatura de resistência, que recusa o processo de assimilação que lhe é imposto, em prol do reconhecimento da diversidade cultural. Essa literatura é o locus do diálogo entre os “mundos”, isto é, entre indivíduos de etnias e heranças culturais diversas.
Foi Edward Said (1993) quem demonstrou com clareza o vínculo entre as literaturas européias e o colonialismo. Ao tentar compreender e interpretar o Oriente, o europeu criou uma imagem especular, desenhando a imagem do próprio rosto. A representação dos povos orientais foi feita segundo o olhar hegemônico do Ocidente e serviu para consolidar o domínio das nações imperialistas. Não foi por acaso que a teoria pós-colonial surgiu justamente nos meios acadêmicos dos países que, no passado, ocuparam a posição do colonizador.
Para Gnisci, o olhar da academia deveria estar direcionado para essa “Literatura dos mundos”, que revela a capacidade da literatura de traduzir-se e traduzir os mundos, a pluralidade dos discursos e das culturas que se aliam contra a globalização e que mantêm entre si um diálogo aberto através das migrações, das hibridações, da mestiçagem: aquilo que Édouard Glissant denomina “crioulização”.
O primeiro passo na direção da descolonização literária seria a rejeição ao prefixo “pós” e o reconhecimento de que as ex-nações imperialistas ainda não renunciaram ao papel do colonizador. O segundo talvez seja iniciar um processo de auscultação dessas vozes que se insurgem e falam de experiências particulares e diversas, sob um ponto de vista que busca aliar a tradição à tradução, fugindo às visões exóticas e folclóricas encenadas pelo olhar hegemônico.
Em busca dos entre-lugares de onde surgem essas vozes, Gnisci dirige o seu olhar para o escritor migrante, que, escrevendo em um idioma que não é o seu, imprime sua marca e a de suas origens em uma literatura nacional que, não sendo originalmente sua, o absorve e incorpora, fazendo com que, na prática, a descolonização literária saia definitivamente das mãos do colonizador.
O caminho para a descolonização, que a literatura torna possível, é, portanto, o diálogo intercultural: um diálogo franco, realista, sem a “pátina” visionária de uma aldeia global que nos tem sido imposta e que nada mais é do que uma forma de dominação constituída sobre a assimetria das relações.
Ao traduzir-se, o ex-colonizado dá-se o direito de contestar as formas estereotipadas e preconceituosas criadas pelos colonizadores, denunciando os interesses ideológicos que nortearam as imagens em circulação. O seu desejo de independência é antes uma luta sobre o direito de representar o seu próprio passado, o que não significa, conforme Rushdie (1991:15) deixa claro, uma maior fidelidade a tal passado, uma vez que o novo entendimento também necessariamente terá de passar pelo processo tradutório.
Para finalizar, gostaria, ainda, de citar Armando Gnisci, ao dizer que “o destino das literaturas dos mundos consiste, talvez, na consciência de estar permanentemente em transição e tradução”
[3] e que a literatura é o único espaço onde todas as vozes se tornam audíveis a um só tempo.

Referências bibliográficas:

RUSHDIE, Salman. Imaginary Homelands. Essays and criticism 1981-1991. London:
Granta Books, 1991.
GLISSANT, Édouard. Introduction à une poétique du divers. Paris: Gallimard, 1996
GNISCI, Armando. Creolizzare l’Europa. Letteratura e migrazione. Roma: Meltemi, 2003.
_______Una storia diversa. Roma: Meltemi, 2001.
_______Poetiche dei mondi.Roma: Meltemi, 1999.
HALL, Stuart. A identidade cultural na pós-modernidade.Trad. Tomaz Tadeu da Silva e
Guacira Lopes Louro. Rio de Janeiro: DP & A, 1998.
SAID, Edward W. Orientalismo. O oriente como invenção do ocidente. São Paulo:
Companhia das Letras, 2001.
________ Culture and Imperialism. New York: Alfred A. Knopf, 1993.
________ Travelling Theory. Raritan: 3 (1982) , 41-67.
________"Narrative and geography". New Left Review, n.180, março/abril, pp.81-
100,1990.

[1] Texto publicado no número 6 da Revista Eletrônica da Unigranrio. http://unigranrio.com.br/letras/revista/index.html
[2] RUSHDIE (1991)
[3] GNISCI, Armando. La stagione presente e viva. Migrazione & Letteratura. Neohelicon. http://www.kluweronline.com/issn/0324-4652